Anno
IX numero 9 - settembre 2000
ARTE
Andrew Wyeth e i Quadri di Helga
di Nicola
D'Ugo
Era l'autunno del 1987
quando vidi per la prima volta un dipinto di Andrew Wyeth. Era sulla copertina del Newsweek
o del Time, tenuta fra le mani da un passeggero della metropolitana di New
York. E in quei giorni lo avrei visto in continuazione quel dipinto, nelle librerie e nei
cartelloni pubblicitari: una donna inghirlandata di foglie, dura nei lineamenti, gli zigomi alti, tutto
l'opposto della leggiadria classica che si respira guardando un dipinto del Quattrocento
italiano, o leggendo un nostro poeta del Trecento. Eppure in qualche misura mi
affascinava, e lo trovavo particolarmente bello. Al tempo, anzi, lo trovavo bellissimo.
Era il volto di Helga, e in quei giorni la mostra dei quadri e disegni dedicatile dal
pittore americano era un evento che, partito dall'esposizione alla Galleria Nazionale
d'Arte di Washington, avrebbe attraversato l'America. Preso dal fascino di Helga, guardai
più volte la copertina del catalogo nelle librerie americane, finché una sera, di
ritorno dal Museo d'Arte di Saint Louis, decisi di acquistarne una copia, che mi
precipitavo a leggere appena ero nella mia camera da letto, dopo le conversazioni serali.
Non sapevo della fama del pittore e del chiacchiericcio americano a riguardo, ma capivo
che il motivo di tanto clamore era dovuto alla volontà di Wyeth di vendere una serie di
alcune centinaia di pezzi insospettati, che non avevano interrotto in alcun modo il suo
lavoro pittorico ed erano rimasti ignoti perfino alla moglie: i ritratti di Helga, una
donna di trentott'anni che lavorava nelle vicinanze della casa del pittore, e qualche
altro della figlia, una ragazzina che sembrava una copia ringiovanita di Helga.
La vendita in blocco dei 238 quadri (oli, tempere, disegni) a un collezionista americano
aveva mosso le alte sfere museali statunitensi e si era giunti, attraverso
l'interessamento del collezionista, a organizzare una mostra itinerante di due anni, che
sarebbe passata per i maggiori musei americani, da Boston a Houston, a Los Angeles, San
Francisco e Detroit.
Sfogliando le pagine del catalogo, ero sempre più affascinato dalla solitudine di Helga,
una solitudine tranquilla, in mezzo a una natura non altrettanto serena. I paesaggi
desolati, le praterie, gli alberi fatiscenti e le assi della casa che parevano essere
prossime alla fine della loro funzione pavimentale, muraria e di copertura, mi suggerivano
una tranquillità e una pace fittizie, poiché in realtà per me rappresentavano un motivo
di desiderio e, quindi, di tensione. Ma tensione verso cosa? Verso la natura aspra, verso
la solitudine, verso la fatiscenza o verso Helga? Helga era un'idea, bella a pensarla, e
quindi non mi posi queste domande in quel momento, né nei mesi successivi, quando di
ritorno in Italia trovai che la fama di Helga aveva varcato l'oceano. Mi accontentai, al
momento, di guardare dal vivo altri dipinti di Wyeth, che mi piacquero, ma che vennero in
qualche modo subito offuscati dalle solitudini metafisiche di De Chirico e dai nudi di
Modigliani, disposti nelle sale attigue del Museo d'Arte Moderna di New York.
Fu un pomeriggio a casa di un amico che qualcosa emerse più chiaramente. Sfogliando il
catalogo con altri amici pittori, il mio amico mi disse che questo Wyeth, di cui non aveva
sentito parlare, era un abile disegnatore, ma che non reggeva il confronto con Bonnard,
con quei ritratti d'interni, quei dettagli che erano sparsi qua e là nei suoi dipinti, e
quel gioco di colori e luci che caratterizza la pittura francese del secondo Ottocento.
Wyeth, in definitiva, mancava di spessore. O, come disse il mio amico: era troppo
americano. In questo fui d'accordo, poiché ponendomi di fronte a un suo dipinto ne venivo
affascinato, ma se cercavo di entrare più in profondità non trovavo niente. Era soltanto
l'idea iniziale suggerita dalla sua pittura che mi colpiva. E ancora mi colpisce, così,
in superficie.
Guardando Bonnard, Modigliani o Bronzino questo non mi succede, né i cosiddetti minori
della pittura senese del Trecento, così vivi di carnalità anche nei ritratti delle
Madonne dell'umiltà: di fronte a questi dipinti si resta in qualche modo ammirati, e più
li si osserva più emergono elementi estetici che continuano a richiamare alla mente altri
scenari, luoghi che abbiamo visitato e immaginato, storie diverse, situazioni affatto
dissimili che, nel momento in cui si guarda e riguarda un quadro, si trovano richiamati
insieme, come in un'epifania. I dipinti di Wyeth, invece, richiamano uno scenario, lo
portano in rilievo, ma evitano ogni ulteriore richiamo di altri scenari della memoria,
rifiutano ogni sorta di epifania premeditata, ossia di un riconoscimento di elementi,
tenuti separatamente in noi, che vengono richiamati insieme in una unità imprevista che
sentiamo vera, e di cui riconosciamo successivamente un carattere universale. Da qui
l'idea del "Perché non ci ho pensato io?" che si pone l'artista o il poeta
rispetto a un'opera d'arte. Nel caso di Wyeth questo processo non avviene. E non avvenendo
si è parlato di lui, sminuendone la validità dell'opera, come di un grande ritrattista e
disegnatore, se non proprio illustratore, di un ottimo pittore di mestiere, un pittore
raffinato e popolare. Dal punto di vista storico-estetico bisogna ammettere che, data la logica
"epifanica" che è alla base della concezione ufficiale dell'arte, questo può
facilmente essere creduto come vero. Dal Romanticismo in poi si è programmaticamente
puntato sull'opera d'arte come rivelazione di un'unità del sentire, anche se si è dovuto
attendere il secondo Ottocento francese perché si avesse qualche esito dello stesso
rilievo dell'arte che si cercava di rimpiazzare con le nuove idee. Ma il fatto che gli
impressionisti e simbolisti francesi che frequentavano il salotto del poeta Stéphane
Mallarmé, e, successivamente, James Joyce, T. S. Eliot e Virginia Woolf, puntassero con
successo la loro attenzione sull'epifania, ha reso l'arte (anche quella letteraria) una
sorta di forma espressiva che dovesse seguire i canoni di un successo e di un abito che
quegli artisti e poeti si erano fatti su misura, portando così le accademie a una sorta
di forma intellettualistica, in cui ci si passa quello che è più facile passarsi: teorie
e tecniche.
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