Vucumprà, lavavetri e nuovi modelli – 5
I vucumprà apparvero sulle nostre spiagge e nei luoghi di villeggiatura intorno alla fine degli anni settanta, poi si sparsero ovunque. Facevano colore, ci portavano in casa quel tocco d’esotico che dava lustro alla nostra solida cultura occidentale, ed erano bene accolti anche per la loro gentilezza e il loro sfavillante sorriso. “Vu cumprà?”, e noi compravamo di tutto, come già avevamo fatto con le cineserie in plastica che avevano invaso il nostro mercato negli anni sessanta. Ci offrivano gli specchietti come a suo tempo l’uomo bianco li aveva offerti alle popolazioni povere di territori ricchi, conquistandosi la loro simpatia, i loro beni e la loro anima. “Vu cumprà?”, e noi, dopo un po’ di tempo di questa solfa, con le case piene di oggettistica etnica, cariche le donne di bigiotteria e vestiario di fattura nordafricana, e gli uomini senza più la curiosità di rovistare nei grossi fagotti per trovare chissà quale articolo eclatante, infastiditi dalle continue profferte che con sempre maggiore insistenza ci inseguivano ovunque, cominciammo a dire di no con ferma gentilezza prima e con un pizzico di scortesia in seguito, che però non scoraggiava i vucumprà, riuniti in schiere sempre più numerose e decisi a sfangare la giornata. I semafori furono presi d’assalto dai lavavetri, molti dei quali ragazzini in età scolare con secchio e spatola e occhioni teneri, e i parabrezza delle nostre auto erano sempre brillanti per sole cento lire e un mezzo sorriso; ma la cosa divenne presto insostenibile, a ogni semaforo si ripresentava il lavavetri che si metteva a sfregare a occhi bassi, senza far caso alle proteste del conducente, e le cento lire spesso venivano lanciate con rabbia e prese al volo senza una parola, in scontri rapidi e tristi. Poi arrivarono a ondate successive extracomunitari di varie nazionalità, la comprensione iniziale cominciò a tendere alla preoccupazione, la parola clandestino si legava impercettibilmente all’illegalità, e l’invasione massiccia cominciava a far temere qualcosa di non facilmente traducibile e accettabile; noi italiani brava gente, cordiali per natura e per cultura, rispettosi delle buone regole dell’ospitalità, mai avremmo voluto ammettere quella specie di piccola riluttanza verso tanta promiscuità di lingue, tradizioni e religioni, convinti nel profondo del valore della mescolanza, ma anche impressionati dalla piega che le cose stavano prendendo. Sorsero ovunque ristoranti con cucina etnica, la palma ai ristoranti cinesi con le lanternine rosse e le piante di bambù e cibi da gustare coi bastoncini, ma era l’epoca in cui mangiare fuori almeno a fine settimana era d’obbligo, così come sperimentare nuovi sapori e accostamenti, e di buona lena affrontammo infatti grandi esperienze culinarie senza mai storcere il naso in presenza di odori e vapori sospetti, o fare gli schizzinosi per un servizio di dubbia correttezza igienica, stoicamente convinti che quello che non strozza ingrassa, e cominciammo infatti ad ingrassare. “La grande abbuffata” di Marco Ferreri del ’73, che si scaglia contro la civiltà dei consumi proponendo la storia di quattro uomini che stanchi della noia di vivere decidono di suicidarsi mangiando fino a scoppiare (“Mangia! Se tu non mangi, non muori”), aveva procurato più nausea che motivo di riflessione agli spettatori, che si sentivano ancora estranei a tanta truculenza. Ma ecco che si comincia a sentir parlare di anoressia e bulimia nervosa, e dell’influenza negativa che i modelli propinati dalla televisione esercitano specialmente sui giovani. Si vedono sfilare in passerella modelle sempre più magre, sempre più diafane, quasi incorporee, e fare la modella diventa il sogno di tante ragazze, che si mettono a dieta ferrea, e l’incubo di tante famiglie alle prese con un problema che non si sa come affrontare. E anche i ragazzi inseguono un sogno, quello di farsi i muscoli massacrandosi in palestra, emuli dei divi forzuti che riempiono schermi cinematografici e televisivi. (continua)
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