Vita in trincea: quotidianità ed eroismo dei soldati al fronte
Nervi tesi ed immaginazioni sovraeccitate in compagnia di ratti e pidocchi; il tutto condito con del rum.
Quando si parla della prima guerra mondiale, vengono considerati in primis gli avvenimenti militari più salienti che hanno caratterizzato questo scontro mondiale; i soldati, veri protagonisti di questo evento, non vengono mai, o quasi, chiamati in causa.
Conoscere la cronologia storica di questo avvenimento è più che importante, ma non per questo la vita del soldato deve essere sminuita.
È difficile descrivere, ma ancor di più comprendere, la quotidianità di un soldato, una quotidianità inimmaginabile.
Le condizioni di vita in cui si trovavano erano insostenibili: la trincea, un fossato con un rialzo scavato dai militari per proteggersi dagli attacchi della fanteria e della artiglieria nemica, era diventata la loro dimora. Inoltre, ogni trincea era protetta da un reticolato di filo spinato per impedire al nemico di insinuarsi a distanza utile per il lancio di bombe a mano, come scrive P. Fussell in La Grande Guerra e la memoria moderna.
Ovviamente le condizioni igeniche in cui vivevano erano pessime: i ratti, che si cibavano dei cadaveri e dei cavalli uccisi, e i pidocchi erano diventati i loro animali da compagnia.
Ogni soldato in trincea aveva una specifica occupazione che doveva svolgere dopo l’adunata serale. Come scrive Fussell in La Grande Guerra e la memoria moderna, gli ingenieri riparavano il reticolato, gli zappatori prolungavano le trincee sotterranee in direzione del nemico, e poi c’erano le squadre addette ai trasporti che portavano le razioni, la posta e il materiale necessario per migliorare le trincee. Un sistema che sembrerebbe quasi funzionare, se non si considerano le condizioni disumane in cui i soldati erano costretti a vivere.
Le loro condizioni di vita materiali erano pessime, ma il loro stato d’animo lo era ancor di più.
Una delle poche occasioni per uscire dalle trincee era data dagli assalti. Il momento precedente l’assalto era psicologicamente il più duro, come testimonia E. Lussu, un ufficiale della Brigata Sassari.
«Pronti per l’assalto!», il comando che un soldato sperava di non ricevere perchè equivalente ad un «vai, e spera di non morire anche questa volta.» Un ordine che però arrivava sempre.
In questi momenti tutti i soldati facevano affidamento al caro e vecchio cognac o rum, a seconda delle disponibilità, e una volta rallentata, per così dire, la pressione, i soldati erano pronti per l’assalto.
Il livello di sopportazione era al limite. Ci furono dei casi di rifiuto della guerra: inizialmente si verificarono dei rifiuti individuali e nel 1917 ci fu una ribellione collettiva con scioperi militari e casi di ammutinamento.
I nervi tesi e le immaginazioni sovraeccitate non solo dei soldati, ma di tutta la popolazione che risentiva gli effetti della guerra, diedero vita a delle false notizie che arrivavano sino alle trincee.
Queste false notizie erano delle espressioni di un desiderio di miglioramento della situazione generale. Come scrive M. Bloch in La Grande Guerra e le false notizie : «si crede facilmente a ciò cui si ha bisogno di credere.»
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