“Vita, il miracolo dell’altro che ti somiglia”
Entrambi particolarmente attenti al tema della vita, intesa come campo di relazioni armoniche (sia pure negli scontri inevitabili), i due artisti sviluppano le loro poetiche in maniere diversissime, comunque puntando i fari sull’Altro: su ciò che di altro e diverso esiste al di là della nostra soggettività e dei nostri schemi mentali, costituendo il grande alveo delle interdipendenze necessarie alla vita. L’osmosi e lo scambio, inteso da Fabrizio nel senso verticale ed intimo che pone la vita in rapporto con le fonti archetipe da cui essa viene, è inteso al contrario da Rossella nel senso orizzontale, di stupore e di riconoscenza per le bellezze naturali in cui l’uomo si trova ad essere inserito. Rossella O’Hara propone elaborati floreali e vegetali ispirati all’arte giapponese dell’Ikebana. Sono versioni indubbiamente europeizzate della sensibilità orientale improntata ad un forte misticismo naturalistico, ma di quella conserva le fondamentali derivazioni filosofiche e simbolistiche. L’Ikebana può essere realizzato con fiori e foglie morte, con rami e con erbe addirittura, ma non è una forma di naturalismo tout court, né un giuoco prettamente formalistico-decorativo. Rossella, che usa spesso la seta come prodotto comunque offerto dalla natura, costruisce i suoi elaborati con slancio fantasmagorico e con sapienza scenografica di forte impatto visivo, ma ciò che le sta a cuore è la festosa rappresentazione della sacralità della natura. Può sembrare un discorso estraneo alla cultura visiva dei nostri tempi, ma se ne possono invece cercare richiami in alcune delle più note correnti artistiche contemporanee dell’Occidente, a partire da quelle del ready made, dell’oggetto trovato, ed in particolare trovato in natura, come pure nelle poetiche del bricolage e dell’assemblage, per non dire dell’arte povera, che propone una sorta di deculturazione e minimalizzazione del prodotto estetico, fino alle poetiche attualissime del riciclaggio artistico, di stampo ecologista. Fabrizio Faraoni si muove su tutt’altro piano. È un Simbolismo puro e modernissimo, il suo, anteriore tuttavia alle tendenze feticistiche che si dipartono dalla glorificazione surrealista e dadaista degli oggetti, giungendo alla tormentosa angoscia della Pop Art e della Nuova Figurazione. Il Simbolismo di Faraoni tenta di cogliere l’arcana essenza delle cose. E non per questo elude il movimento, il dinamismo. Al contrario, le sue forme scultoree sono plastiche, duttili, sempre sorprese nell’azione, giacché il suo intento è di afferrare l’unità del moto e della stasi, del Divenire e dell’Essere, coinvolti in un medesimo respiro. Faraoni ama la stilizzazione, la concisione delle forme, la loro scarnificazione addirittura, come quando usa dei fili metallici allo scopo, si direbbe, di trovare l’ossatura del mondo, di ridurre la vita ai suoi archetipi, ai suoi elementi essenziali. In realtà, egli parla di simboli, di oggetti totemici, di miti che si assumono il ruolo, non di fossilizzare o cristallizzare l’azione, come vuole un’assurda propaganda, ma di tornare ai momenti iniziali della vita, alle scaturigini creative e originanti del divenire, alle scintille che danno forma all’azione dell’uomo e del mondo.
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