“Vita di Ungaretti”, di Walter Mauro
Ungaretti, somma sintesi della poesia italiana del Novecento, viene qui riproposto in un lavoro interpretativo che conduce il lettore tanto nella sua affascinante e lunga esistenza quanto nei risvolti cognitivi della sua ricerca artistica. Mauro, ex allievo, ci svela il suo verso in modo organico e compiuto rendendo molto bene l’air du temps e non rinunciando all’espediente narrativo innestato sulla stesura critica. Si parte dall’infanzia, dal deserto egiziano; il primo impatto è con Leopardi, una formazione nel segno dell’infinito e del mistero che già si palesa tra la sabbia nel tarlo dell’ineffabile. Sono radici, queste, onnipresenti e che cementano nella parola la rivelazione poetica. “Segreto che mi è tutt’oggi segreto”, così lo definiva lo stesso Ungaretti riferendosi a Mallarmè. Durante il primo viaggio del poeta in Europa, si suicida Mohammed Sceab, l’amico che lo aveva raggiunto in Francia, segnandolo in una catena di lutti. Parigi è il pulsante centro di cultura e avanguardie all’apice di ragguardevoli presenze e fenomeni. Lì nasce l’amicizia con Apollinaire, segue i seminari di Bergson e, soprattutto attraverso la figura di Prezzolini, verrà aiutato ad introdursi in quel folto e variegato mondo artistico. Poi la guerra, la focosità anarco-interventista e il pietrificante orrore delle trincee: “Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie”. L’oltralpe resta a portata di mano, vi ritornerà in licenza e dopo l’armistizio, quando verrà meno anche l’amico Guillaume. Nella douce France conosce anche Jeanne Dupoix, compagna di una vita deceduta nel ’58. A partire dal ’20, Ungaretti si trasferisce a Roma. Qui avviene “l’assimilazione del barocco”, del “senso tragico della vita che risiede e persiste” in quest’arte. Attraverso La Ronda, sopraggiungono anche opportuni stimoli nell’humus della rilettura della tradizione con la modernità. Si avvia quel “processo di recupero leopardiano” che lo vedrà protagonista in Brasile, terra in cui troverà tutta “l’esuberanza della natura” ma anche la prematura scomparsa del figlio Antonietto ed un più incisivo impatto col barocco. Poi il rientro a Roma, l’occupazione e la conseguente liberazione con “facinorosi che accusano il poeta di fascismo”. Con Piazza Remunia s’intravedono i contatti più diretti dell’autore col poeta, l’entourage universitario e la ricerca accademica. Vico nel tempo storico e Bergson in quello psicologico innescano la “fusione” e la “rivelazione” di quegli anni. Infine la vecchiaia, dove “la memoria filtra il deserto”, “la scarna essenzialità” del verso. L’amore ritrovato in Brasile per la giovane Bruna Bianco alla quale scrive di un Natale che ai suoi occhi splende di ”luce olandese”, quella scoperta approdando ad Amsterdam ed osservando Vermeer nel lontano ‘33. L’innamoramento lo galvanizza e si rigenererà, successivamente, con “una capricciosa croata”. Morirà, quel “bimbo di ottant’anni”, come lui stesso amava definirsi, inquieto per un “progresso spaventoso e fulmineo”. Sarà attento e determinato nel commentare: “il mistero s’infittisce sempre di più” davanti al televisore che mostra il primo uomo sulla luna. Sempre a proposito di TV, storica è la sua chiosa all’Odissea in un impegno che non ha mai abbandonato come traduttore. “L’asse Petrarca-Leopardi”, “il reperimento della linea pura” gettando un ponte tra umanesimo e romanticismo (consolidato con la docenza in Brasile), caratterizzeranno l’analisi della nostra letteratura con Ungaretti che, passando attraverso tutte le avanguardie del ventesimo secolo, ha sempre rielaborato la tradizione nei canoni più consoni ai tempi. Non citati nel libro, a 33 giri restano solchi con Endrigo e le poesie di Vinicius de Moraes. Mauro, grande estimatore di jazz, preferisce riportare aneddoti con Tom Jobim e Baden Powell, figure che riconducono a Stan Getz ed i gloriosi tempi del jazz samba. Illustrazioni di Dragutescu che ritraggono il poeta compaiono sulla copertina, complici nella sottostante didascalia olografa di Ungaretti.
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