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“Il Villaggio di Gennaro” di Maria Lanciotti

“Il Villaggio di Gennaro” di Maria Lanciotti
Gennaio 14
10:07 2017

“Versione teatrale” d’un’idea antica e moderna: l’utopia

In ogni opera che si rispetti, bisogna trovare o il verso-chiave (se si tratta della cosiddetta poesia), oppure il sintagma-chiave se il libro è scritto in prosa.

Per quanto riguarda il lavoro teatrale di Maria Lanciotti titolato “Il Villaggio di Gennaro”, che le Edizioni Controluce hanno stampato nella “Collana drammaturgia” (apro un inciso: Controluce, da un paio di anni, ha fatto un balzo di qualità a livello nazionale), i  punti di riferimento “ante quem” e “post quem”  sono almeno tre, e li indicherò al momento opportuno. Per adesso mi urge dire che si tratta di una “versione teatrale” d’un’idea antica e moderna: l’utopia. Certo, se i grandi uomini della Storia non avessero sognato ad occhi aperti, saremmo rimasti all’età della pietra (e forse sarebbe stato meglio per tanti aspetti), o alla “media-luna” delle palafitte. Gennaro è un visionario, modesto, nel suo mondo ristretto alla sua bottega ma aperto ai grandi ideali. E’ uno di quegli uomini di cui si va perdendo lo stampo. Vorrebbe fare, ma è ostacolato dal timore intrinseco del mondo che ci rende banali; avrebbe potuto realizzare qualcosa, ma le circostanze non gliel’hanno permesso. Però la sua riflessione (e questo è il primo sintagma-chiave) è la seguente, “ante quem”: “Se non ci fosse il muratore, a che servirebbe l’ingegnere?”.

Maria Lanciotti vede lungo, con la sua espressione misurata, tenuta al freno logico di un estremo rigore mentale, in cui bisogna scandagliare fra le righe, i rimandi, le cose dette e non dette, forse gli stessi oggetti accennati e i tentacoli dei tempi non recenti (senza mai scadere nella “Laudatio temporis acti”). I personaggi che fanno corona al protagonista “specializzato in smussi, tagli e buchi a maioliche, marmi e vetri”, e cioè una conoscente (Liberata), soprattutto Aladdin il vucumprà, e Giacomo (un compagno, si parla di politica) e una sorta di contraddittore necessario alla trama (Don Tonino con la sua assistente domestica, una russa piacente, che fa da contraltare sia alle idee di Gennaro che a quelle del suo parroco: e sarà, forse, la chiave di volta di un progetto “folle”: ma senza il “folle volo” Ulisse sarebbe rimasto l’eroe di Troia, il navigatore un poco strano e funambolico del Mediterraneo, senza impersonare l’idea dell’ulissismo, di colui, cioè, che contraddicendo i limiti imposti da Dio e dalla Natura alle cose, varca le Colonne d’Ercole per dare un senso più alto alla vita, per seguire la virtù e la scienza, anche se vi rimetterà la pelle insieme con i compagni “vecchi e tardi”; anche un piccolo e anonimo Gennaro può incarnare la sacra follia d’un eroismo che può andare dal gigante Odisseo all’uomo qualunque).

L’Italia è una terra di artigiani: senza di essi non sarebbero nati i Comuni e non sarebbe finito il Medioevo (quello negativo, perché

l’Età di Mezzo è fra i secoli più alti della storia dello spirito!); ma noi questa verità l’abbiamo dimenticata per copiare – stoltamente, non avendone i mezzi né le risorse – la civiltà tecnologica, della macchina e del consumo di massa, anzi: della produzione di massa.

Gennaro è un artigiano, un sognatore, ma senza i sognatori, che sbattono la testa al muro e danno però un senso alla vita, la civiltà sarebbe morta sui fronti di battaglia! Tutto è omologato. Prima ogni cosa (compreso il vino) aveva una firma “privata”. La lotta del lavoro era lotta non solo per l’esistenza, ma superamento continuo di ostacoli come in una gara sportiva il cui guiderdone era il “nome” e l’orgoglio del poter dire: “Questo oggetto l’ho fatto io, con le mie mani”.

 Aladdin è un personaggio necessario al racconto teatrale. Egli pone un problema che potrebbe essere ormai ritenuto ovvio (quello razziale), ma che Maria Lanciotti colloca in un ambito più profondo, coraggioso e polemico. Infatti, quando Gennaro dice: “Nel consorzio c’è posto per tutti: senza distinzione di sesso, di lingua, di religione”, Aladdin osserva rispettosamente: “Tu non detto ‘di razza’”. Al che il protagonista – il quale stava appunto ideando questo consorzio per riportare in efficienza la nostra antichissima sapienza artigiana – risponde: “Non esiste distinzione di razza!”, ma l’intelligente Aladdin, che noi sappiamo in seguito essere un medico, insiste: “Però scritto su Costituzione, articolo tre!”. Ed ecco il punto centrale della discussione. Gennaro ha il coraggio di dire che è un errore che va corretto, perché la razza umana è una. D’altronde, quando ad Einstein fecero dichiarare di quale razza fosse, scrisse: “Umana”. Ma noi fermamente crediamo alla bontà dei Padri Costituenti, i quali pensavano alle storture razziali di Hitler, del sottomesso collega Mussolini (anche se fra i due, e Stalin ed altri, il Duce è stato il meno sanguinario, ma ciò non lo assolve da quella contraddizione coi suoi primi intenti di non considerare né le razze né gli ebrei nemici d’Italia).

Chiedo scusa per questa divagazione, ma ce ne sarebbero altre a cui sono tentato di dare il via, poiché nel tessuto speculativo di Lanciotti si parla di ideologie, e della loro fallacia (Gennaro, infatti, è al di sopra dell’ideologia, anche se è del pugno chiuso: il suo è idealismo, non ideologia).

Uno dei punti che si evincono dal contesto è – secondo me – il fatto che in Italia ognuno è costretto a operare in un campo lavorativo contrario a quello sognato (o almeno la maggioranza). Questo la dice lunga sulla fuga dei cervelli! Ma è un nostro metodo quello di mandare in Inghilterra il genio di Marconi, in Spagna Cristoforo Colombo, in esilio Dante e Foscolo, in America Antonio Meucci, e di far fare strada e carriera ai mediocri. Forse sarebbe meglio cancellare dal nostro vocabolario la parola “meritocrazia”.

Un terzo punto si pone come un nucleo di riflessione e di specularità di due visioni contrapposte, antitetiche, ove lo specchio riflette l’immagine in modo disuguale, ma noi ci chiediamo quale sarà la vera delle due. Mi riferisco alla frase di Giacomo, un “compagno”, il quale dice: “Ed eccoci giunti al paese dell’Utopia…”, al che Michela, una “compagna”, risponde: “Dove non si fa mai attracco”.

È in questo continuo dubbio, in questo sperare e chiudere la speranza, in tale ambiguità in cui tutti potrebbero avere ragione, che si basa la forza dell’opera di Maria Lanciotti (anche se alla fine uno spiraglio di avvenire può anche farsi strada, ma noi siamo con Michela, e aggiungiamo che per fortuna non si fa mai attracco al paese dell’Utopia, dal momento che di tante che se ne sono attuate, molte si sono convertite nell’opposto del dettato dei loro  ideatori…).

Scrive nella postfazione Edoardo Baietti: “Con la penna di Maria non si scherza: guida passo passo lungo scene di tranquilla (in apparenza) vita quotidiana per poi sconcertare con un’ironia sottile, mutevole e in taluni casi del tutto inaspettata”.

Altro che spaccato di vita quotidiana di un paese ancora ai margini del consumismo e del caos! In queste poche pagine – pur ambientate in una piccola bottega artigiana – c’è una sorta di mondo “antico-moderno” o addirittura atemporale per quanto riguarda la posizione cronologico-speculativa, e, soprattutto, un irriducibile  coagulo di problematiche alle quali né il lettore  né il critico (o lo spettatore, dato che è un lavoro teatrale) può sfuggire. La risposta? L’opera è aperta: ognuno darà la sua, ma rimane il fatto che Lanciotti ha siglato un testo che induce a riflettere e sradica dal giudizio perentorio, così come la vita in tutte le sue sfaccettature antifrastiche e meravigliosamente plurivalenti.

 

 http://roma-artigiana.it/in-libreria-il-villaggio-di-gennaro-di-maria-lanciotti/

 

 

 

 

 

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