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Il villaggio di Gennaro di Maria Lanciotti

Il villaggio di Gennaro di Maria Lanciotti
Novembre 05
18:48 2016

Il villaggio di Gennaro: appunti per un mondo sapientemente nostro*

Leggo da anni i libri di Maria Lanciotti, i suoi lavori, con l’intento di non sbrigarmi a finirli. Quando un autore è diventato corposo, ha al suo attivo tanti titoli, e hai trovato che ci sono idee che ti interessano nella sua scrittura e altre che ti fanno rabbia, è meglio che tu lo continui a leggere, e se ti piace anche come scrive, lo metti fra gli autori guida che non si esauriscono alla fine della lettura, ti tormentano, ti interrogano, interrogano una parte di te e quindi hai bisogno di tempo per metabolizzarli. Per capirci, oltre i libri di Maria, fra le letture che mi porto dietro nel tempo, quelle che stanno sul comodino, c’è anche il poeta inglese Philip Larkin, l’eterno Eugenio Montale, il romanziere americano Philip Roth, Primo Levi, altri…

Ho cominciato a scrivere di scrittori, dei loro libri, quando mi è sembrato che il giornalismo che mi piace fare, seppure a livello pubblicistico, richiedesse un tempo adeguato che non avevo per stare davvero dietro ai fatti, cioè in giro, per la strada ad informarsi: a quel punto potevo dedicare meno tempo alla ricerca di notizie, ma più tempo alla scrittura e sempre tanto allo studio, alla riflessione, così mi sono affezionata, diciamo così, ad alcuni scrittori che vivono e lavorano ai Castelli: con Maria abbiamo condiviso in parte anche l’esperienza del giornale Controluce e la mia esperienza di libraia. Lei è venuta a trovarmi, abbiamo organizzato presentazioni e continuato così il nostro dialogo sulla scrittura, i libri, la vita, seppure con pause più o meno lunghe per gli impegni personali di ognuna.

Tornando alla stesura drammaturgica de Il Villaggio di Gennaro di cui parliamo stasera. Provo a fermare alcune idee fra le tante che scaturiscono da questa lettura dalla trama apparentemente semplice ma che a ben guardare coinvolge il nostro modo di vivere personale e anche sociale se è vero che oggi noi siamo il lavoro che facciamo e che se siamo costretti a dirci ‘disoccupati’, anche se occupati a fare mille cose al giorno, siamo considerati subito dei falliti. (Qui occorrerebbe cominciare a cambiare linguaggio, poiché prima di essere dis-occupati noi siamo persone…)

Appena aperto il libro, un pezzo teatrale, atto unico in tre scene, mi sono trovata subito a mio agio. L’entrata in scena di Gennaro cercando gli occhiali, la bottega piccola ma fredda, il parlottare fra sé e sé tipico delle persone sole mi ha subito un po’ ricordato Luca Cupiello, personaggio di Eduardo De Filippo, mentre s’avvia a costruire l’amato presepe: Luca vive una sua solitudine pur stando in famiglia un po’ per la sordità, un po’ perché i suoi, per non metterlo a parte di certe cose che ritengono sia meglio che non sappia, fanno ‘il telegrafo senza fili’. È dignitosamente povero: nel suo caso la stanza dove dorme è grande ma tristemente fredda come molte altre abitazioni allora, (con Eduardo siamo negli anni trenta, ma per i poveri poco è cambiato a quanto pare) e Luca Cupiello sopravvive nell’esistere di quelle botteghe, con proprietari maestri-mastri, lavoranti, apprendisti, che impariamo da Eduardo, e Maria Lanciotti ce lo ricorda, danno vita ad una realtà nella realtà con la loro sola esistenza. Infatti Lucariello è uomo di fiducia di una tipografia: in pratica apre e chiude l’attività la mattina e la sera e ne conserva la chiave. Gennaro, invece, è un maestro mosaicista e se non esistesse lui tutti i personaggi di Maria, quasi poveri e infreddoliti quanto lui, non saprebbero dove vedersi.

Da questo punto di vista il racconto drammaturgico è una epifania, un farsi della luce in una giornata come un’altra. Una bella luce di speranza chiude anche la scena nel finale. Gennaro ha un progetto utopico da realizzarsi con soldi che, immagina, si possano ricavare dalla vendita della sua eredità di famiglia mai intaccata: ovvero realizzare un quartiere/cittadella degli artigiani che possa fungere da casa e bottega. Nella bottega arriva un coacervo di persone che non so se nella mente dell’autrice significhino resistenza, resilienza, ovvero conservazione o adattamento: il venditore immigrato, il cantastorie, i compagni impegnati (forse catto-comunisti?), l’assistente domiciliare. Anche se alcune figure hanno poco più di trent’anni, come il vucumprà, sembrano già legate ad un’altra epoca.

L’idea di una città degli artigiani è bella: talmente bella che qua ai Castelli Romani è stata sempre ostacolata in maniera feroce: infatti accade che quando non sovvenziona tutto lo stato, quando non c’è da prendere quindi, quando non c’è il lavoro sicuro che ti da la pensione, (come se ancora ce ne fosse uno, visto che non è più sicuro nemmeno l’istituto dell’inps che coi soldi delle pensioni azzarda investimenti pericolosi); e quando se io che ho il potere ti do un terreno, un capannone uno stabile e poi non posso importi il personale che dico io (e poi dicono che la mafia sta al sud…), quando è così non se ne fa niente di niente. Questi alcuni degli ostacoli insormontabili, più politici, di mentalità, si capisce, che non legati al fare davvero.

In realtà l’utopia di Gennaro ci interroga perché il suo discorso si inserisce benissimo nelle utopie concrete, nell’altra economia, (argomenti mica tanto nuovi oramai) solo che a parte che una volta entrati in questa mentalità bisogna crederci fino in fondo e non a giorni alterni, ma la cosa che si ribadisce troppo poco è che queste attività, queste realtà, concepite in questo modo, hanno bisogno di due cose: un indirizzo etico preciso, valido anche questo a oltranza, e rinunciare alla vita consumistica, all’acquisto indiscriminato di tutto quel che il sistema ci propone. Un mio ex compagno di ginnasio si occupa proprio in questi anni di ufficio di scollocamento, ovvero, come fare per vivere senza dipendere da un lavoro salariato. La prima cosa è essere convinti che non si ha bisogno di tutto quello che ci propone il sistema, che posso vivere con meno, che posso coabitare, che posso condividere, anche con famiglia a carico. L’essere scollocati, ovvero senza un lavoro fisso dipendente, non può’, non deve più far nascere riprovazione sociale, semmai si dovrebbe fare sistema attorno ai lavori utili a tutti noi abbandonando un bel po’ l’economia del fatuo, del superfluo… ma non quella del bello. Attenzione.

Il bello, l’arte, gli antichi scritti autografi, riescono a tenerci assieme anche in questi giorni tristi del terremoto: noi restiamo col fiato sospeso per le persone scomparse, per il destino dei vivi e per i simboli della nostra storia di comunità… leggo da Il Villaggio di Gennaro: «che lo faccio a fare un progetto se poi non c’è chi lo realizza? A regola d’arte, sia chiaro. Che vuol dire ‘a regola d’arte’? Chiedilo a un pittore, a un fabbro, a un falegname. Chiedilo a un orafo, a un liutaio, a un intarsiatore, a una ricamatrice. Tutti sanno che cosa vuol dire ‘a regola d’arte, ma non te lo sanno spiegare. I bravi artigiani creano, costruiscono ma non stanno lì a spiegarti le cose. Tu osserva quello che fanno e sta lì la risposta. Se proprio la vuoi sapere. Quando le cose funzionano e sono belle e sono durevoli allora vuol dire che sono fatte bene. Ecco che cosa vuol dire ‘a regola d’arte’.»

Le scene de Il Villaggio di Gennaro sono scene di condivisione di preoccupazione per l’altro, chi ha poco, ma ha quanto basta (la zuppa, una brandina con le coperte, anche una televisione per le notizie, per quanto in bianco e nero) si preoccupa per l’altro: avrà sonno, avrà freddo…. (nella postfazione Edoardo Baietti nota che qui non ci sono ammennicoli tecnologici e oggi il vero povero, almeno nei paesi industrializzati del primo mondo come l’Italia, non è più considerato quello che non ha pane o una giacca, questi si valutano averi scontati, ma attrezzature tecnologiche). Leggo dal ‘Paniere Istat 2016 per la misura della inflazione’: «nel 2016 entrano nel paniere le bevande vegetali, il pantalone corto uomo, i leggings bambina, la lampadina led, i panni cattura polvere, i servizi integrati di telecomunicazione (tv, internet e voce), l’alloggio universitario, il tatuaggio. La rilevazione dei prezzi delle automobili usate va a integrare quella dei prezzi delle automobili nuove mentre il trapano elettrico arricchisce la gamma di prodotti nel segmento di consumo utensili e attrezzature a motore per la casa e il giardino. Esce dal paniere il prodotto cuccette e vagoni letto

Leggere ‘sto paniere è più veloce che leggere libri di storia e sociologia, per certi versi è meno avvincente ma molto pratico…. Ci ricorda anche che la povertà è molto diversa dalla miseria ovvero dalla poca istruzione, dalla scarsa curiosità di tutto, dal vivere ai margini non per scelta ‘organizzata’ ma per incapacità a partecipare.

Dalla condivisione si arriva fino alla figura un po’ atipica del prete, attorno al tavolo della discussione di Gennaro: prete che dovrebbe rappresentare unione, invece qua rappresenta, in parte, una casta ricca che non sa bene neanche cosa possiede. Forse potrebbe mettere a disposizione l’edifico per il sogno di Gennaro ma non ci ha mai nemmeno pensato lontanamente ad utilizzarlo. Se non l’avete visto vi segnalo a tal proposito il film Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio che racconta molto bene alcuni rapporti di conservazione dello status quo tra poteri forti… anche con Bellocchio sembra tutto molto semplice ma non smetterete di pensare al film per settimane, ve lo garantisco, e c’è un ottimo Roberto Herlitzka…. esco ora dalla lettura del bellissimo L’uomo del futuro – sulle strade di don Lorenzo Milani di Eraldo Affinati, nel quale la teoria e la pratica del priore di Barbiana ci raccontano, in parte, alcune cose che ci racconta Il Villaggio di Gennaro, la sua bottega dei miracoli: dare uno spazio alla creatività, alla capacità di fare, promuovere formazione ed autoformazione infonde fiducia in se stessi e così nel futuro. Un futuro che in parte torna nelle proprie mani.

Se questa è una società che crede di non avere più bisogno (in realtà di non meritare più) un lavoro lungo e accurato come quello del restauratore, del ceramista, del mosaicista, o fatto davvero a regola d’arte (come quello del muratore, dell’elettricista?) … (a proposito, quanti di voi hanno o hanno avuto problemi con lavori fatti in casa, pagati un occhio della testa e fatti letteralmente con i piedi?) Se questa è una società che crede questo, dicevo, questo avrà.

In parte noi contemporanei potremmo avere ragione nel leggere noi stessi, nel considerarci meno eterni di come si consideravano i romani antichi o gli egizi, che si leggevano immortali e costruivano, infatti, acquedotti e dimore che ancora esistono. In parte è anche vero che noi umani siamo capaci di costruire solo monumenti (che poi possiamo ritenere futili o no). Pensate alla rete: pensate ai milioni di pagine della rete, ai milioni e milardi di pagine social e contatti: questo è un monumento dell’età contemporanea che ha già prodotto qualche bella realtà di solidarietà e incontro fra centinaia di migliaia di persone; e inoltre conta già i suoi morti, i suoi feriti, i suoi martiri, nemmeno la rete è lavoro sprecato anche se non costruisce oggetti che si possono toccare.

Ogni epoca, con tutta probabilità, innalza i propri monumenti: oggi costruiamo pagine web e le strade e i palazzi, le scuole, cadono a pezzi, (o li costruiamo male e anche se nuovi non resistono alle sollecitazioni della natura), oppure abbiamo artigiani che lavorano come se le cose dovessero durare una settimana tanto tutti quanti abbiamo ben altro da fare, da vedere: viaggiamo di più, siamo connessi con persone a centinaia o migliaia di chilometri di distanza, vediamo immagini tv, streaming, scaricate da supporti trasportabili, non abbiamo tempo per curarci della forma e alla fine non l’abbiamo neppure per curarci della sostanza.

La lentezza di Gennaro a-tecnologico mosaicista (ma non a-tecnico) resta nella mente perché ci chiama al suo essere, al suo ragionare: mentre andiamo, infatti, ci resta il dubbio se stiamo andando bene… e qui lascio la riflessione ad ognuno…

Anche se l’utopia di Gennaro resterà tale, noi possiamo viverla grazie alla capacità di raccontarla di Maria Lanciotti. Possiamo ricordare che esiste il mondo del lavoro fatto ad arte, ben fatto, quello maggiormente lento e che perciò sapeva includere anche chi non era così pronto e svelto, pensiamo solo alle persone svantaggiate per le quali una volta c’era la famiglia allargata e la bottega, il ritrovo, ed oggi si è costretti a pensare progetti ‘a parte’ che difficilmente includono perché già nascono ‘a parte’.

Credo che questo pezzo di vita evocato da Il Villaggio di Gennaro non sia una lode ai tempi andati: il lavoro, ce lo raccontava anche Primo Levi nel suo La chiave a stella è soddisfazione per il ben fatto, guadagno, socialità, racconto di vicissitudini: leggere per credere i racconti Acciughe I e Acciughe II, dalla sua esperienza di chimico, sempre contenuti ne La chiave a stella uno dei libri più ironici e ottimisti di Primo Levi.

La socialità nel racconto di Maria torna alla ribalta: conta la conversazione, il discorrere, la sfumatura di pensiero: conversare con gli altri circoscrive meglio chi siamo.

Quando Maria ha messo insieme gli elementi di questo progetto (la storia di Gennaro, quella dell’edifico del Sacro Cuore di Ciampino) avrà pensato anche ai ragazzi che vorrebbero farsi un futuro.

A volte si incolpano i giovani di non fare abbastanza per il loro lavoro, per il loro futuro, che poi è oggi, ogni giorno: oggi, più che mai essere giovani, capire da che parte poter andare, resta difficile più di qualche volta con le poche indicazioni che si riescono a cogliere: c’è, è vero, tanta pseudocomunicazione. Basta passare qualche ora a guardare i comunicati stampa di una redazione giornalistica: tanti lanci di notizie più che approfondimenti, tanta fuffa e molta poca sostanza, complici anche i social.

Tutto appare in continuo movimento anche se poi non è proprio così, anzi è tutto maledettamente fermo (io non ho dimenticato le discussioni devastanti dei miei vent’anni fra coetanei o con gli adulti su quello che avremmo dovuto fare, sul futuro, sull’incertezza, devastanti perché spesso la poca fermezza dell’età si ‘incontra’ con il poco essere presi sul serio perché ‘tanto si è giovani’, ci pensano gli adulti che poi a causa della crisi economica o dei disastri naturali non possono pensarci più….).

Scrive il poeta britannico Philip Larkin in alcuni versi nati nel ‘900 sui giovani che lasciano il loro paese per andare a cercare lavoro. Tratti da Finestre alte, versi che pure letti in questo secolo evocano incertezza, durezza dell’esistere:

«Questo è esser giovani,
mettersi addosso il secolo allarmato
come un vestito nuovo da grande magazzino,
le enormi decisioni impresse da piedi
che s’inventano il cammino,
le finestre irregolari che evocano una strada»

*trascrizione dall’intervento tenuto il 4 novembre 2016 durante la presentazione del volume (Serena Grizi)

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