“Viaggiatore, portati le valigie al piano di sopra, che qui la felicità pesa”
Chi si sognerebbe di aprire un film con la cinepresa che insegue il passo svelto di una Carolina Crescentini in vestito da sposa, di pedinarla tra gli alberi di ulivo, di guardarla salire le scale con passo deciso e di inquadrarla, infine, con lo sguardo fermo su di un uomo e la pistola nera che punta al cuore, sopra l’abito bianco? Ci ha pensato Ferzan Ozpeteck. Chi sono le Mine vaganti, che danno il nome alla sua pellicola? Quelle che «servono a portare il disordine, a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a scombinare tutto, a cambiare piani». È questo film, allora, un mix dolceamaro tra amore e famiglia. La famiglia Cantone possiede uno dei più importanti pastifici del Salento. L’azienda, fondata dalla nonna e da suo cognato Nicola, è ora passata sotto la direzione del figlio Vincenzo (Ennio Fantastichini) e del nipote Antonio (Alessandro Preziosi). L’altro nipote, Tommaso (Riccardo Scamarcio), vive a Roma ed è tornato a casa con l’intenzione di dire alla famiglia che non studia economia e commercio, come tutti credono, ma che si è laureato in lettere e vuole fare lo scrittore. Ah sì, e che è gay. Ma, più o meno sorprendentemente, Antonio batte il fratello sul tempo e fa outing prima di lui. All’ordine di lasciare la casa, Antonio obbedisce senza fiatare. Di qui un leggero infarto per il padre Vincenzo, vittima del giudizio della gente, e il passaggio di testimone nella direzione dell’azienda a Tommaso e alla nuova socia in affari Alba Brunetti (Nicole Grimaudo). Ancora una volta, il regista turco proietta sullo schermo la triste realtà dell’omossesualità nel nostro Paese, dipinta come una malattia da cui guarire, come qualcosa da cui nascondersi. A spalleggiare la lotta contro i pregiudizi dei fratelli Cantone, due mine vaganti femminili: la nonna e Alba. Comprensiva, forte e dolce la prima. Impersonificata nella vecchiaia da una bravissima Ilaria Occhini. Era lei la giovane Carolina Crescentini in abito nuziale. L’uomo che le impedì di suicidarsi prima di un matrimonio forzato era proprio suo cognato Nicola, l’uomo che amava. Il flashback che le distrusse la vita la perseguiterà fino alla sua morte. «Ho passato con lui tutta la vita» racconterà «stava con me anche quando non c’era. Nella mia testa io dormivo con lui e con lui mi svegliavo la mattina. Tutti questi anni non ho mai cessato di amarlo, è stata una cosa bella ma insopportabile». Alba fa il suo ingresso in scena scendendo dalla sua spider rossa: graffia la fiancata di un’Audi nera con le chiavi della macchina e rompe lo specchietto della stessa con il tacco della scarpa. Ignoto il motivo ma in fondo non interessa. È la personalità che mostra allo spettatore ciò che importa. Le sue insicurezze saranno fermate da un ambiguo bacio tra i due. Colonna sonora prevalentemente italiana che non fa fatica ad adattarsi: Pensiero Stupendo e Sogno di Patty Pravo e una moderna Nina Zilli con 50 Mila Lacrime, solo per nominare alcune tracce. E un finale che ti lascia il battito cardiaco accelerato, la sensazione che qualcuno riesca a dire con parole quello che ognuno di noi nasconde dentro: «Nicola mi ha insegnato la cosa più importante di tutte: a sorridere quando stai male, quando dentro vorresti morire. Non siate tristi per me quando non sentite la mia voce in casa, la vita non è mai nelle nostre stanze. Moriamo, e poi torniamo: come tutto».
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