Venezia Giulia e Dalmazia, una letteratura italiana ed europea
Quest’anno agli esami di maturità è uscito uno scritto di Magris, con grande sorpresa dei candidati. Ma la letteratura di confine ha una storia lunga e importante. Per lunghi anni relegata ai margini della letteratura nazionale, per antica disattenzione e per la più vasta rimozione della storia della Venezia Giulia e della Dalmazia, la narrativa degli autori originari di quell’area adriatica è rimasta a lungo pressoché sconosciuta nel resto dell’Italia, non trovando adeguata accoglienza neppure nei più accreditati studi e tanto meno nei testi scolastici, ad eccezione di Svevo, Slataper e Saba.
«Letteratura triestina», «scrittori di frontiera», sono definizioni ricorrenti per indicare genericamente quegli autori rimasti ancora relativamente in ombra presso il grande pubblico: invece, la loro produzione narrativa presenta caratteri di grande interesse per il suo respiro più europeo che regionale o soltanto nazionale, considerando che la front
iera orientale d’Italia, oltre Trieste, dall’Istria sino alla Dalmazia, è stata storicamente «instabile più delle altre e più delle altre aperta agli attriti e alle mescolanze delle nazioni», come l’ha definita uno degli scrittori più pregevoli di quell’area e che meglio l’hanno rappresentata, Franco Vegliani. Alcuni degli autori dei quali daremo qui qualche notizia esordirono sulle migliori riviste letterarie degli anni Trenta e Quaranta (tra le quali “Solaria”), segno dell’apprezzamento della critica del tempo. Nel dopoguerra invece – per un insieme di ragioni interne e internazionali – la rimozione del ricordo delle vicende che colpirono la Venezia Giulia durante e dopo il conflitto ebbe i suoi riflessi anche sulla sua letteratura, caratterizzata da atmosfere e storie molto peculiari, e largamente distinte da tanta altra narrativa italiana. Negli anni a noi più vicini, alcune intelligenti iniziative editoriali hanno contribuito a recuperare aut
ori e opere: si pensi alle riedizioni presso Sellerio di alcuni romanzi di Enrico Morovich e Franco Vegliani, negli anni Ottanta e Novanta, o alle iniziative in memoria di Fulvio Tomizza nel 2009, in occasione del decennale della scomparsa. Non potendo in questa sede dilungarci troppo, ricordiamo alcune delle personalità più significative, rammaricandoci di non poterle citare tutte. Iniziamo con Enrico Morovich (Fiume 1906-Lavagna 1994), che, esule dalla sua città assegnata alla Jugoslavia di Tito, esordì e scrisse su riviste quali «La Fiera letteraria», «Solaria», «Omnibus», «La Riforma letteraria», «Oggi», «Il Selvaggio», «Il Caffè», «Il Mondo». Nel 1946 il grande critico Gianfranco Contini lo incluse nell’antologia Italie magique. Contes surréels modernes, edita a Parigi, mentre in anni più recenti lo riscoprì Leonardo Sciascia. Moltissimi i suoi racconti e romanzi, tutti affollati di creature diafane e di confini valichi attraversati con legger
ezza, un modo per metabolizzare, per quanto possibile, lo smarrimento e il senso di estraneità propri dell’esule costretto ad abbandonare i luoghi natali, beni ed affetti. Tra i suoi volumi ci piace ricordare Miracoli quotidiani (1938), I giganti marini (1984 e 1990), Racconti di Fiume e altre cose (1985), Il baratro (1964 e 1990), Un italiano di Fiume (1993). Al confine, inteso come luogo geografico e spirituale, fa riferimento anche la produzione di Franco Vegliani (Trieste 1915-Malcesine 1982), che recupera alla letteratura regioni ed eventi dimenticati dalla memoria nazionale: la Venezia Giulia con i suoi conflitti etnici, l’esilio della popolazione italiana nel secondo dopoguerra, la perdita di gran parte del suo territorio sancita dal trattato di pace del 1947. Molto apprezzato da Claudio Magris, in Vegliani il sentimento della perdita e il rapporto con le contrastanti voci del confine assumono un senso così dilatato da divenire infine la chiave di lettura di tut
ta un’esistenza. Vale segnalare i suoi bei tre romanzi, La frontiera (da cui Franco Giraldi ha ricavato nel 1996 l’omonimo film), Processo a Volosca e La carta coperta, i primi due ristampati da Sellerio, il terzo ormai introvabile. All’Istria ha dedicato tutta la sua opera Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada 1935-Trieste 1999), che esordì nel 1960 con il bel romanzo Materada, racconto dell’esodo dell’intera popolazione italiana nel dopoguerra, rappresentazione sobria e commossa dell’esilio e dello sradicamento. Con La ragazza di Petrovia (1963) Tomizza tornava sul tema dell’esodo, inserendovi gli ambienti dei campi-profughi in Italia. Ai temi istriani, rimasti sempre centrali nella sua narrativa, lo scrittore dedicò anche Dove tornare (1974). A questo autore dobbiamo dunque l’aver introdotto nella letteratura italiana la tragedia dell’esodo, in particolare dei contadini istriani, espropriati dei beni legati alla terra, privati dell’identità indiv
iduale e collettiva; e in altre pagine ha narrato la desolazione di quei centri di raccolta profughi, si vedano ad esempio i racconti brevi Visita al Campo-profughi, o Il Campo, in Ieri, un secolo fa (1985). «Ma esisteva – ne ha scritto Dario Fertilio sul “Corriere della Sera” – un’altra forma di malinconia, […] strettamente legata a quella che correntemente viene definita ‘identità di frontiera’. Per Tomizza il sentimento di appartenenza all’Istria, […] coincideva con il superamento della contrapposizione tra ‘italianità’ e ‘slavismo’». Divisa tra l’una e l’altra dimensione, l’anima di Tomizza riassumeva le tensioni di una doppia appartenenza che, per quanto egli tentasse di superare ed armonizzare, si ripresentava sempre storicamente e intimamente conflittuale. Quattro volte finalista al premio Campiello, ebbe nel 1977 il premio Strega per La miglior vita, senz’altro tra i migliori suoi romanzi, tra i quali anche La finzione di Maria
(1981), L’ereditiera veneziana, e Il male viene dal Nord (1984), Gli sposi di via Rossetti (1986) e Il sogno dalmata (postumo, 2001). Non possiamo non citare Pier Antonio Quarantotti Gambini (Pisino d’Istria 1910-Venezia 1965), che trascorse l’infanzia tra l’Istria e Trieste e si laureò in Legge a Torino. A Trieste, nel 1929, conobbe e divenne buon amico di Umberto Saba, che avvertì nel giovanissimo istriano le qualità autentiche dello scrittore. Dal 1933 collaboratore de “La Stampa” di Torino, pubblicò alcuni dei più bei romanzi della prima metà del Novecento: La rosa rossa (1937, che Franco Giraldi tradusse in pellicola nel 1973), L’onda dell’incrociatore (Premio Bagutta 1948), La calda vita (1958, divenuto film nel 1960 per la regia di Claude Autant-Lara); e ancora i racconti confluiti nella raccolta Gli anni ciechi (postumo, 1971). Suoi anche Primavera a Trieste 1951), efficace e commosso diario della feroce occupazione jugoslava di Trieste del mag
gio-giugno 1945, ed alcuni libri di viaggio (Sotto il sole di Russia, 1963) e Neve a Manhattan (postumo, 1998).Di «istrianità» di Quarantotti Gambini scrisse il critico Bruno Maier per «certa limpidezza di visione artistica e certo suo peculiare gusto cromatico», «per la singolare, penetrante attenzione alla problematica psicologica (e psicanalitica)» ma non se ne può non sottolineare anche l’altissima qualità della scrittura. Infine, nel novero dei grandi autori giuliani e dalmati sono Paolo Santarcangeli (Fiume 1909-Torino 1995), docente universitario di Lingua e Letteratura ungherese, traduttore e saggista raffinato, del quale citiamo Il libro dei Labirinti (1967 e 1984) e le memorie fiumane, Il porto dell’aquila decapitata (1969) e In cattività babilonese (1987). Ed almeno ancora Enzo Bettiza (Spalato 1927), nato e cresciuto al crocevia di quattro civiltà e parlando tre lingue, croato, italiano e tedesco, scrittore e giornalista prestigioso, editorialista de
“La Stampa”, esperto di Europa orientale e di storia sovietica in particolare, autore fra l’altro del romanzo Esilio (1998, Premio Campiello).
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