Velletri2030 News – ISTRUZIONE
è di questi giorni l’uscita del Rapporto Prove Invalsi 2018, che ogni anno scatta una fotografia dei livelli di apprendimento degli studenti italiani. Il rapporto si rivela estremamente interessante per comprendere come affrontare, sia dal punto di vista dell’intervento che della ricerca valutativa e sociale, la povertà educativa in Italia.
INVALSI, – Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e di formazione – è un Ente Pubblico di Ricerca, soggetto alla vigilanza del Ministero della Pubblica Istruzione. Due sono le questioni che saltano maggiormente all’occhio dal Rapporto Prove Invalsi 2018, scaricabile da: http://www.invalsi.it/invalsi/doc_evidenza/2018/Rapporto_prove_INVALSI_2018.pdf
La prima è la conferma del grande divario in termini di risultati conseguiti tra il Nord e il Sud e le isole. La seconda questione è la relazione tra status socio-economico-culturale delle famiglie di provenienza e risultati nelle prove Invalsi, per cui tendenzialmente gli alunni che vivono in situazioni familiari maggiormente favorevoli hanno maggiori possibilità di conseguire risultati migliori. Come si sottolinea nel Rapporto, questo non significa che ad una situazione familiare sfavorevole si associno necessariamente risultati peggiori, ma che i ragazzi che vivono in condizioni disagiate hanno meno possibilità. Non è certamente una novità, ma invita a riflettere su cosa oggi si intenda con povertà educativa e quali siano le modalità più efficaci di intervento. E’ chiaro infatti, qualora fosse stato ancora necessario sottolinearlo, come la povertà educativa non sia una caratteristica individuale di un bambino o della famiglia, ma piuttosto il sintomo di profonde disuguaglianze sociali tali da ostacolare l’immaginazione e la progettazione del proprio futuro. La povertà educativa non è dunque questione che riguarda il futuro dei bambini, ma delle collettività di cui essi fanno parte. La povertà educativa è un problema sociale che dovrebbe essere al centro delle politiche sociali, in particolare delle politiche giovanili e della pubblica istruzione. La qualità di un sistema d’istruzione si giudica, oltre che dalla sua efficacia, vale a dire dai livelli di apprendimento ai quali riesce a portare i suoi studenti, anche dalla sua maggiore o minore equità. Rimane la domanda: Quanto è equa la scuola?
La relazione tra povertà educativa e disuguaglianze sociali si acuisce nell’Italia Meridionale e insulare, dove, come sottolinea anche il Rapporto Annuale ISTAT 2017 sulla Poverta’ in Italia, https://www.istat.it/it/files//2018/06/La-povert%C3%A0-in-Italia-2017.pdf
l’incidenza della povertà nelle famiglie è più alta rispetto al Nord e al Centro. Questi dati sono allarmanti visto anche che, secondo il Rapporto Un ascensore sociale rotto? Come promuovere la mobilità sociale, pubblicato recentemente dalla Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in Italia potrebbero essere necessarie cinque generazioni perché i bambini nati in famiglie svantaggiate raggiungano il reddito medio OCSE, https://www.oecd.org/italy/social-mobility-2018-ITA-IT.pdf
In molti Paesi, le persone al fondo della scala dei redditi hanno poche possibilità di salire, e quelle in cima tendono a rimanere in cima – l’ascensore sociale è fermo. Ciò ha conseguenze economiche, sociali, e politiche dannose. La mancanza di mobilità verso l’alto implica la perdita di molti talenti. Ciò mina la crescita economica potenziale e riduce anche la soddisfazione individuale, il benessere e la coesione sociale. La mobilità sociale è bassa nella parte inferiore della scala del reddito: “pavimenti collosi” impediscono alle persone di salire. E’ ancora più bassa in alto: l’accumulo di opportunità porta anche a “siffitti collosi”.
Queste considerazioni sono particolarmente vere per l’Italia e sono importanti anche per comprendere gli obiettivi e gli approcci delle valutazioni che si occupano di povertà educativa. In questo senso le valutazioni devono interrogarsi non solo sui risultati, ma anche sul come e il perché siano stati raggiunti o meno, in modo da comprendere il processo e la replicabilità e scalabilità dell’intervento stesso. Non si possono inoltre considerare esclusivamente Indicatori e misurazioni quantitative che guardino esclusivamente ai bambini coinvolti. Occorre, piuttosto, comprendere in maniera profonda il contesto e i processi con cui le famiglie e la collettività costruiscano sensi e significati della quotidianità e, dunque, del futuro. La valutazione in questo modo restituisce la complessità della questione, che appunto non significa interrogarsi solo sul futuro dei bambini, ma su nuove strategie per ridurre le profonde disuguaglianze sociali che attraversano il Paese.
Una fotografia in linea con i dati ISTAT – Noi Italia 2018 http://noi-italia.istat.it/
La quota di giovani che abbandonano precocemente gli studi in Italia, nel 2017 si attesta al 14% (16,6% maschi e 11,2% femmine), in linea con l’obiettivo nazionale del 16% fissato per il 2020 (ma rimanendo distante dall’obiettivo europeo di circa il 10%). Nello stesso anno sale al 26,9 % la percentuale dei 30-34enni che hanno conseguito un titolo di studio universitario, grazie al contributo della componente femminile (un valore ancora lontano dal 40% fissato dalla strategia per la media europea 2020). Infine, i giovani di 15-29 anni che non studiano e non lavorano sono poco meno di 2,2 milioni (il 24,1% della relativa popolazione, in riduzione per il terzo anno consecutivo), con una incidenza più elevata tra le donne rispetto agli uomini (26% per le donne e 22,4% per gli uomini). Un discorso a se merita la carenza cronica di studenti che scelgono percorsi di laurea raccolti sotto l’acronimo STEM (derivato dall’inglese Science, Technology, Engineering, Mathematics).
Purtroppo a Velletri i numeri sulla povertà educativa, quando disponibili, fotografano una situazione al di sotto delle medie nazionali, così come riportato nei Documenti “Velletri 2030 – un’idea di futuro sostenibile“, ed. 2013 e 2017. Una bella sfida per la Politica chiamata a progettare uno Sviluppo Sostenibile verso l’anno 2030. Non ci sono soltanto le “buche stradali” da sistemare, più importanti sono le politiche per affrontare le “buche sociali” presenti nel nostro territorio, purtroppo in forte crescita.
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