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Usi e costumi nella democrazia dei “cacicchi”

Gennaio 18
23:00 2010

Uno dei più fervidi oppositori della politica ad personam, Gianfranco Fini, in una delle sue tante manifestazioni di affezione alle regole delle democrazia, si è lasciato sfuggire un’affermazione apparentemente superflua e cioè che il voto di ogni singolo cittadino non è merce di scambio e che nessuno dovrebbe mai cedere alla tentazione di compiere un’operazione meramente opportunistica, quando vi è la necessità di scegliere i propri rappresentanti al governo della cosa pubblica. Che si tratti di deputati (in questo caso la scelta è obbligata dalla legge elettorale), consiglieri regionali, comunali o rappresentanti di condominio, questi dovrebbero essere indicati e sostenuti perché possessori di requisiti non dubitabili e soprattutto capaci di agire coerentemente e nel rispetto del mandato che la sovranità popolare gli ha conferito.

 

Banalità, futili enunciazioni retoriche, ridondanti sermoni che lasciano il tempo che trovano, richiamo dottrinario ad un’etica delle funzioni e delle relazioni tra singolo individuo e democrazia su cui vi è ben poco da perdere tempo? Il richiamo ai principi minimi della logica democratica, della libertà di opinione e di scelta ma anche a quelli evangelici dell’occhio, della trave e la pagliuzza o dello scagliare pietre improprie quando è il momento di ritrarre il braccio che odia, è certamente un esercizio con connotati funzionali per il Presidente della Camera, ma anche una buona occasione per capire nel profondo quale motivo abbia questo signore per affermare una cosa così ovvia. Probabilmente è la constatazione che certi processi si governano investendo ogni singola responsabilità e che la partita dell’utilità del suffragio universale, senza limite di censo, è persa, se si decide di declinare la propria coscienza al privilegio anziché al diritto.
Beh, il messaggio è chiaro: l’Italia è attualmente un paese in cui gli orientamenti politici sono a dir poco confusi, sogniamo una democrazia e una politica “ortodossa”, all’europea, e viviamo un’anomalia eterodossa in cui le regole non sono del tutto condivise e così scarichiamo le nostre responsabilità nel gioco della contrapposizione manichea, tra il partito “dell’amore e quello dell’odio”.
D’altronde è l’unico alibi che ci rimane, quello di restare appiccicati ad un modello psicologico infantile in cui il bisogno primario del padre carismatico si contrappone all’esigenza di affrancamento da una perenne adolescenza, turbata da un dominus ancora forte e produttivo. È per questo che il conflitto lo portiamo tutto all’esterno e a stento riconosciamo le nostre debolezze, quelle che ci caratterizzano e ci rendono fragili di fronte al terribile impegno che bisognerebbe profondere per tentare di cambiare una cultura politica così ambigua.
Per abbozzarne una rappresentazione mi viene in mente il Cacicco, una figura lontana dalla nostra esperienza storica e geografica ma che incarna bene un tipo assai comune alle nostre vicende politiche. Il cacicco era una sorta di capotribù, di dignitario che governava larghe fette della popolazione indigena delle Antille e del centro America, durante la dominazione spagnola, detenendo un potere assoluto che gli permetteva di decidere della vita e della morte di ogni singolo componente la comunità da lui governata e per questo era in grado di regolare qualsiasi attività rientrasse sotto la propria giurisdizione. I cacicchi italiani, per Massimo D’Alema, sono quei dignitari di partito che condizionano, a tutti i livelli, le scelte di una forza politica esercitando una certa pressione attraverso la rendita di posizione acquisita, base elettorale o serbatoio di voti e che, come i vecchi feudatari, rivendicano il proprio potere non in base all’interesse generale ma a quello strettamente personale.
Ma a ben vedere, quella fabbrica di consenso elettorale che non ha colore politico ed è funzionale ad entrambi gli schieramenti maggioritari, è un vecchio motivo di quel “familismo amorale” descritto così bene da Edward Banfield, che si misura con la massimizzazione dei risultati personali, in termini di consensi, di potere e di ricchezza economica. I moderni cacicchi spesso provengono dai partiti della prima repubblica e conoscono tutti i migliori e più efficaci metodi di reclutamento politico, scelgono un simbolo come si fa con un brand pubblicitario e a quel punto parte la caccia al consenso che trova terreno fertile proprio in quel familismo amorale che mette al centro l’interesse individuale e familiare a scapito di quello della comunità. Lo scambio di favori si innesta appunto su questa linea di arretratezza sociale che, seppur mutata nelle forme, rimane sostanzialmente identica ad un passato tutto italiano.
I cacicchi nostrani, col diventare amministratori locali, amplificano le loro attitudini e le mettono al servizio unicamente del proprio consenso, che si misura in termini di preferenze, annullano ogni scompenso interno attraverso lo strumento della cooptazione (se qualcuno, all’interno del proprio partito o coalizione, manifesta una certa difficoltà a sposare una linea…e questo qualcuno possiede una rendita di posizione elettorale cospicua, allora si può rimediare dandogli maggiore visibilità attraverso un incarico istituzionale o in una delle tante aziende a capitale pubblico sul territorio). D’altronde, per il cacicco non esistono differenze di valori, di merito e di forma, tutto serve ad incrementare il proprio potere personale, ad intercettare desideri e bisogni e trasformarli in promesse, a patto che tutti i componenti della famiglia facciano quel dovere là….
Nelle amministrazioni locali la maggior parte dei sindaci sono veri e propri cacicchi, a volte per vocazione, altre per induzione e comunque sempre coerenti con il principio della bulimia del consenso, svuotano i partiti dalle loro prerogative di indirizzo, cancellando di fatto la democrazia interna per farne uno strumento della propria azione, ostracizzano quei pochi che la pensano diversamente e si attorniano di una serie di avatar nani, spasmodici e assertivi, che non sanno far altro che i valletti della buona novella. Il tutto condito da un turbinio di rapporti con cacicchi “maggiori” tra segreterie nazionali e regionali, in cerca di correnti e imprimatur vincenti per poter compiere il grande salto, quello della dignità compiuta.
Da questa osservazione, di una piccola ma fondamentale “economia” di scala, bisogna ripartire, allontanando, se è possibile, tutti gli alibi che la politica nazionale ci fornisce e ricominciare daccapo, dalla prima pietra: il voto non è merce di scambio!

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