Uno sguardo di chi c’era. “Dove vola l’avvoltoio?” ‒ 5
E qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure
e cancello il tuo nome dalla mia facciata
e confondo i miei alibi, e le tue ragioni
i miei alibi e le tue ragioni…
(Rimmel, Francesco de Gregori)
Nel decennio delle grandi riforme tutto sembrava vecchio e da buttare dalla finestra, come si faceva una volta a Capodanno con le cose consumate o rotte. Quegli anni Settanta furono così turbolenti che poco se ne capiva mentre passavano, e così belli e feroci che solo a ripensarli prende un nodo alla gola e la voglia di tornare indietro per ricominciare e fare meglio.
Furono anni ricchi di bene e di male, di grandi possibilità e di sperpero di energie spesso male indirizzate. Ma l’energia c’era, ce n’era tanta, ce n’era troppa, liberata d’un colpo dopo un accumulo durato troppo a lungo.
In quegli anni si tentò una diversa visione del mondo, con una entusiasmante fiducia non più riscontrabile in seguito.
C’era forte attrito tra il vecchio e il nuovo, tanto avviluppati e avversi da sprizzare scintille e provocare incendi: c’era chi tentava di mantenere vivo un conformismo logoro ma ancora bene incatramato e chi andava all’assalto per abbattere le ultime resistenze. E tanto sconvolgimento arrivava alle coscienze, mettendole in subbuglio.
A quei tempi ero giovane anch’io, ma di una giovinezza “addomesticata” che sembrava una senilità precoce. Allora a trent’anni una donna pensava di aver “già detto tutto” – come si sentiva spesso ripetere da persone incapaci di vedere la donna oltre le sue mansioni quotidiane – e si preparava a vivere di ricordi, restando a completa disposizione delle necessità familiari. Ma tutto quel movimento attorno, tutto quel fermento, portava a riconsiderare l’esistenza, che non era fatta solo di doveri da assolvere.
La parola diritto non era stata insegnata alla mia generazione, mentre il senso del dovere ci era stato inculcato fin dalla più tenera età.
E poi in un turbine tutto si rimescola, e scopri il diritto di sognare e il dovere di lottare per realizzare i tuoi sogni. Ce lo insegnarono i giovani, che però a loro volta non avevano dimestichezza con la parola dovere, perché forse noi, per rifarci di una educazione a senso unico, avevamo ripetuto l’errore ma al contrario.
E qualcosa rimane…
Gli anni Settanta furono tutti da vivere, nell’insieme: inevitabili come un febbrone di crescita, con tutte le sofferenze e i rischi del caso.
In quegli anni ci fu una produzione artistica straordinaria.
Tanta musica, i cantautori sbocciavano come rose a maggio, in una gara di bravura eccezionale. Qui ne citiamo solo alcuni tra quelli che più seppero interpretare quel tempo e le sue contraddizioni, chi subito arrivato al successo e chi riscoperto in seguito, come Rino Gaetano presto uscito drammaticamente di scena, che seppe raccontare l’Italia degli anni della tensione e della corruzione e il disagio degli emarginati con testi al vetriolo rivestiti di un’ironia scanzonata penetrante come uno stiletto:
Chi vive in baracca
chi suda il salario
chi ama l’amore chi sogni di gloria
chi ruba pensioni
chi ha scarsa memoria…
E gli intramontabili che non serve nominare e la grande poesia di certi testi, un transito nel tempo che restituisce miti e memoria per un pianto di nostalgia. Da “Il vecchio e il bambino” di Guccini:
E il vecchio diceva, guardando lontano:
Immagina questo coperto di grano,
immagina i frutti e immagina i fiori
e pensa alle voci e pensa ai colori
[…]
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”
Fra le cantautrici da ricordare Maria Monti che negli anni ’60 aveva trattato tematiche a carattere politico e femminista tra cui “Le canzoni del no”, sequestrato in tutta Italia perché conteneva la canzone “La marcia della pace” (testo di Franco Fortini e Fausto Amodei) i cui versi “E se la Patria chiama, lasciala chiamare” furono giudicati sovversivi, in quanto invito all’obiezione di coscienza. E Giovanna Marini con i suoi canti di protesta e ballate tradizionali, che fondò nel ’75 la Scuola Popolare di Musica di Testaccio a Roma:
Andavano col treno giù nel Meridione
per fare una grande manifestazione
il ventidue d’ottobre del settantadue
in curva il treno che pareva un balcone
quei balconi con le coperte per la processione…
Nacquero decine di gruppi musicali dai nomi immaginifici: Cugini di campagna, Il giardino dei semplici, Homo Sapiens, Nuovi Angeli, Profeti, Santo California, Le Orme, Alunni del sole, I ribelli, Nomadi. E il Banco del Mutuo Soccorso che ci fece dono, tra l’altro, di quel meraviglioso “Canto di primavera”:
La primavera è altro
che un cielo chiaro
è grandine veloce sui tuoi pensieri
arriva come il mare e non sai da dove.
Dei tanti gruppi musicali stranieri ‒ tutti innovativi e travolgenti ‒ da citare gli Inti Illimani, che dopo il golpe cileno di Pinochet nel ‘73 trovarono asilo politico in Italia e portarono alla celebrità il brano che era divenuto in tutto il mondo un inno di lotta:
El pueblo unido iamás será vencido,
el pueblo unido jamás será vencido!
E tutti i nomi che ci portiamo stampati dentro come il manifesto di una stagione irripetibile, a partire dai Cantacronache, un gruppo di musicisti, letterati e poeti sorto a Torino nel ’57, di cui riportiamo alcuni brani di “Dove vola l’avvoltoio”, testo di Italo Calvino e musica di Sergio Liberovici; una canzone contro la guerra che si raccorda negli ultimi versi a “La guerra di Piero” di De Andrè:
Un giorno nel mondo finita fu l’ultima guerra,
il cupo cannone si tacque e più non sparò,
e privo del triste suo cibo dall’arida terra,
un branco di neri avvoltoi si levò.
Dove vola l’avvoltoio?
avvoltoio vola via,
vola via dalla terra mia,
che è la terra dell’amor.
L’avvoltoio andò dal fiume
ed il fiume disse: «No,
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Nella limpida corrente
ora scendon carpe e trote
non più i corpi dei soldati
che la fanno insanguinar.
C’era tanta musica nell’aria in quegli anni e tanta voglia d’amore. Forse l’amore che c’era nell’aria in quegli anni non si era mai sentito prima con tanta violenza, un amore che azzannava al petto con una rabbia smisurata. Ancora vivo il sogno di una società giusta e paritaria, che non trovava però terreno dove attecchire.
Ma il nostro mondo in bianco e nero era infranto, e quello che appariva era un caleidoscopio irto di specchietti frastagliati e ingannevoli. E quasi inebetiti si voltò pagina, sempre più afflitti dal malessere di un finto benessere, sospinti dalla fabbrica dei sogni con cui la TV commerciale istiga la società del “tutto e subito” e prosegue spedita la trasformazione di un popolo.
Ma questa è un’altra storia.
Uno sguardo di chi c’era – “PAGHERETE TUTTO, PAGHERETE CARO!” ‒ 2 | Notizie in Controluce
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Uno sguardo di chi c’era ‒ 4 | Notizie in Controluce
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