UNA MEMORIA A FORMA DI CUORE
Un pezzo di storia, una parte del nostro cuore, della nostra memoria: le Grotte Cave, antiche cavità scavate da secoli che i nostri nonni, bisnonni hanno allargato e reso vivibili per scampare alla furia delle bombe di quel maledetto 14 febbraio del 1944 e successivamente a maggio.
Una pioggia di ordigni sganciati dalle Fortezze Volanti che ha provocato morte, feriti e distruzione in quel borgo di boscaioli e piccoli commercianti, convinti fino alla fine che non sarebbero stati bombardati perché c’era Monte Cavo che avrebbe fatto da protezione, chissà come. Invece gli aerei, oltrepassata la cima e diretti verso Roma, improvvisamente viravano e, tornando indietro facevano scempio di un paese inerme, senza alcuna difesa.
Visitare oggi queste Grotte – mi vien da scriverle con la maiuscola per il grande rispetto che nutro per la memoria che esse rappresentano – con Daniela, Francesco, Ermanno, Carlo, Alessandro è stata un’emozione incredibile.
Siamo partiti dalla via che dai Campi di Annibale conduce verso Rocca Priora; poco dopo la piccola Edicola edificata nel 1959 e dedicata alla Madonnella, siamo scesi dalla macchina e, nei pressi della grande cava di lapillo sulla quale stazionava un’immobile e fiera capretta bianca, sorvegliata da agguerriti maremmani che al nostro passaggio abbaiavano forsennatamente, ci siamo introdotti nel bosco. La mia andatura poco abituata ai sentieri è stata aiutata e agevolata da uno dei bastoni da trekking, gentilmente prestatomi da Ermanno.
La macchia di Rocca, mi piace chiamarla così, è di una bellezza straordinaria anche in inverno, con un folto tappeto di foglie che attenua la pressione dei nostri passi durante il cammino; alberi e rami spogli che svettano verso l’alto lasciano intravedere un cielo azzurro, oggi particolarmente terso con la tramontana che stamattina tagliava il viso. Ovunque pungitopi e agrifogli con le loro bacche rosse e piccoli crochi violacei pronti a spuntare.
Lapillo e terra, pianura e scoscesi passaggi ora in salita, ora in discesa, rami e frasche da schivare e capelli impigliati in spini di rovo e rami secchi sospesi nell’aria. Il cammino scorre: si parla, ci si racconta, si fa accenno a quando bambina ero andata con mio padre alla fonte del Pantanello; ricordo che stretta alla sua mano, oltre a prendere l’acqua, mi aveva condotta su uno strettissimo passaggio e mi aveva fatto vedere delle grandi cavità nella montagna. Là aveva iniziato a raccontare: una storia che non è mai finita, narrata poi in famiglia da mia mamma, dai nonni, alimentata poi dalle mie ricerche…
E una grande pena che è rimasta sempre nel mio cuore quando, sempre da piccola seppi di quella giovane ragazza, spaventatissima delle bombe, che mai era uscita dalla grande grotta dallo scoppio della guerra. L’ultima scheggia dell’ultima bomba l’aveva colpita al cuore proprio quando tutto stava per finire. Mamma ne era stata testimone oculare e pare di risentire ancora la grande pena che provava nel ricordo. Con le mie ricerche e testimonianze raccolte da adulta, seppi poi si chiamava Leda Acciari. A lei avrebbero voluto dedicare una targa alla memoria, ma questa iniziativa non è stata mai realizzata.
Il percorso procede e arriviamo alle prime aperture scavate nella roccia lavica: all’interno, tra pareti e terreno di lapillo l’oscurità s’attenua con la luce che filtra dall’esterno. Non sono molto grandi le grotte: alcune sono comunicanti per scongiurare il pericolo di restare intrappolati se lo scoppio di una bomba avesse ostruito il passaggio. Tra noi si prende a narrare di quei parenti che là avevano abitato, tirato avanti creando piccoli esercizi commerciali che avevano dato il nome alle Grotte stesse: la grotta del Barone, la grotta del Macello, quella nella quale si vendeva il vino, la grotta du Gobbu e così via. Francesco narra di sua zia Cesarina che, soffrendo di claustrofobia non riusciva a entrare nella caverna e dormiva in una piccola capanna avanti all’entrata della grotta stessa, provocando la protesta dei coinquilini che temevano essere scoperti da chi sorvolava con i bombardieri.
Entro in uno di questi ricoveri naturali: l’apertura mi costringe ad abbassare la testa; in alcune vi sono dei fori distanziati tra loro su una parete e quella opposta… erano per gli appoggi sui quali posare le brande, per non dormire sul lapillo. All’entrata, in altri, un anfratto annerito dal fumo: era la cucina, vi si accendeva il fuoco per cuocere quel poco che c’era e di fronte, siamo sempre all’entrata, in un altro anfratto, un ripiano sul quale appoggiare forse pentolame o utilizzato come dispensa. Ma forse è fin troppo idilliaca come descrizione: mi raccontava mia mamma che si dormiva sempre vestiti, con le scarpe, che nella grotta grande dove lei era con i suoi, si mettevano tra un alloggio e l’altro, dei separé costituiti da teli o coperte per garantire un minimo di privacy…
Quella grotta dove lei è stata da bambina oggi non ho potuto vederla: non è stato possibile arrivarci perché il cammino si interrompe, non si può passare. Pare faccia parte di una zona diventata proprietà privata.
La stessa che ha inglobato lo spiazzo sul quale si apriva lo slargo sulla fonte del Pantanello dov’ero andata con mio papà e che finiva sullo strapiombo di Pentima Stalla che però vedo e fotografo da lontano, in mezzo al bosco.
Continua il nostro cammino, inerpicandoci verso l’alto: arriviamo a due grotte molto grandi: mi emoziono, le fotografo. L’interno è stato recentemente riempito di lapillo e oltre, poco distante, vi è una barriera che impedisce di andare verso le altre grotte, quelle che avrei voluto visitare dopo tanti anni.
Scatto foto, immortalo un panorama distante reso cristallino e terso da quel vento di tramontana che non sentiamo più, presi come siamo dal cammino: all’orizzonte, vicinissimo, il mare. Pare quasi si possa toccare, immagino le onde che vanno e vengono, libere, senza recinzioni e barriere. Una catena di monti sulla destra, il Soratte visibilissimo: sono i miei accompagnatori che mi guidano, illustrano e indicano. Guardo con tanta voglia di lasciarmi rapire da tanta bellezza.
Il cane lupo di Alessandro è un accompagnatore discreto: lo vedo entrare incuriosito nelle grotte, mentre imbocchiamo la via del ritorno. E qui la bella sosta, grazie alla grande gentilezza di Daniela: un caffè davanti a un cuore: sì proprio questa la forma di una delle grotte davanti la quale ci siamo fermati. È simbolica, penso, racchiude nella sua forma la memoria, quella che non dobbiamo mai dimenticare, che va tramandata alle future generazioni perché è parte di noi, delle generazioni che ci hanno preceduti e legame di quelle che verranno. Un cuore e un grande desiderio: poter regalare a tutti questa tangibile esperienza mnemonica, da rinnovare di anno in anno, creando un simbiotico legame con la nostra terra, il nostro passato, la nostra storia. Partendo proprio da qui, dalle Grotte Cave.
grazie Rita per l’emozionante esperienza condivisa