Un romanzo della scrittrice Anna Maria Vanalesti
Un romanzo della scrittrice Anna Maria Vanalesti
“Via marchese di Montrone”
Nella quarta di copertina del romanzo “Via Marchese di Montrone” della nota dantista Anna Maria Vanalesti (Viola ed., pagg. 206, E. 14,00) c’è, in poche parole, l’argomento di questo libro: “È la storia di una donna che per tutta la vita insegue la propria identità, dall’infanzia tormentata dall’assenza del padre… fino all’età adulta, in cui diviene moglie, madre e nonna, sempre tentando di realizzare se stessa”.
Myrna è la protagonista, che ora in prima ora in terza persona narra la storia della sua famiglia e attorno a lei ruotano tanti personaggi: la madre, il padre, le sorelle, il fratello, i figli, il marito, gli amici… Noi seguiamo passo passo Myrna, la sua infanzia, i suoi studi, l’università, il matrimonio, la nascita dei figli, il lavoro nel mondo della scuola e la sua brillante carriera, i suoi molteplici interessi culturali fino alla maturità, al suo essere nonna.
Tutto si svolge da Bari a Roma, da Milano alla Sardegna: i suoi “luoghi del cuore”; la seguiamo nei numerosi viaggi, che per la protagonista sono fuga dalla realtà… dalle scelte sbagliate, dalle frasi non dette, dai pentimenti.
Il titolo è il nome della strada in cui abitava da ragazzina, a Bari, con tutta la sua famiglia: nonni, zii, cugini, sorelle, madre; manca solo il padre. La mancanza del papà nella sua infanzia: ecco il primo nodo da sciogliere che incide sulla sua personalità, sulle sue ribellioni. Con la protagonista partiamo dagli anni cinquanta a Bari e arriviamo fino ai giorni nostri: scopriamo abitudini, stili di vita che via via cambiano per tutti e incidono sulla vita dei protagonisti di questo racconto. La storia dell’Italia, il dopoguerra, il boom economico, gli anni ’70, il terrorismo, l’attentato ad Aldo Moro fanno da sfondo a questa famiglia patriarcale che attraverso varie fasi (matrimoni, nascita di figli, università, concorsi e assunzioni impegnative nel mondo del lavoro) li vediamo ora a Bari, ora a Milano, ora a Roma. È bene ripetere quanto accennato pocanzi: “noi” seguiamo passo passo Myrna, la sua infanzia, i suoi studi, l’università, il matrimonio, la nascita dei figli, il lavoro nel mondo della scuola e la sua brillante carriera, i suoi molteplici interessi culturali fino alla maturità, la sua vita nella capitale e il suo essere una nonna presente sempre. Perché dico “noi”? Qui sta già un primo segreto della narrazione: l’autrice ci coinvolge, non lasciandoci lettori estranei.
C’è sempre per Myrna la nostalgia della sua terra, della festa di san Nicola, della villetta del nonno sospesa tra la campagna pugliese e il mare dove l’ulivo, il suo grande e secolare amico argenteo, aveva assunto, nel tronco, “la forma contorta e dolente di una donna in preghiera”.
È sempre presente la madre della protagonista, n manca il rimorso che spesso la sconvolge nel pensare alla sua morte: e lei, la figlia, non c’era: “…Forse mi ha perdonata per non esserle stata vicina nell’ora del trapasso…”, e nei suoi sogni notturni appare sempre lei, la madre. Il mare culmina nell’essere un simbolo, un mezzo di interpretazione, una chiave di svolta, diciamo un elemento agglutinante delle vicissitudini, come un rimbalzo sentimentale, un paesaggio dell’anima: “…. Ad un tratto… vedo un bellissimo mare trasparente e calmo, e decido subito di tuffarmi, ma ho lasciato il costume nella camera che non riesco a trovare. Mi prende l’angoscia, compare mia madre che mi sollecita a portare giù i bagagli, ma io sono indietro con tutto e il mare mi attenderà inutilmente, perché all’improvviso mi sveglio”.
Nelle ultime parti del romanzo l’autrice affronta con intensità due temi importanti: la sindrome del nido vuoto e il rapporto di coppia, dopo una vita insieme, quando i figli si allontanano dalla casa di origine.
E quando i suoi figli ormai cresciuti sono con la loro nuova famiglia (secondo le regole del ciclo della vita, è normale andare via di casa una volta raggiunta una certa età), allora Myrna capisce ancora di più la solitudine che avrà avuto sua madre quando lei e i suoi fratelli hanno intrapreso la loro strada lontani da lei. “I figli crescono e diventano altre persone, con sentimenti diversi da quelli che noi madri abbiamo loro attribuito, o credevamo che avessero. Si formano una famiglia e ruotano soltanto in quel cerchio… Amano intensamente solo i soggetti che tale spazio include, vite che dipendono da loro. Tutti coloro che furono prima, genitori, fratelli, sorelle, passano in secondo piano”.
E la sua solitudine di donna matura, avanti con gli anni, la riporta agli ultimi scorci dell’esistenza della madre: “…Forse anche mia madre provava la stessa solitudine che sto provando io. È mia la colpa… avrei potuto riempire il vuoto lasciato nella sua esistenza… Non l’ho fatto, mi sono rifugiata nella mia casa romana, mi sono stretta ai miei figli, ho cercato di governare le loro vite anche da adulti, come quando erano ragazzi. Ho inseguito la carriera, ho cercato amici… e ora pago con il vuoto incolmabile che mi è intorno dopo la sua morte”. Procedendo nella lettura, il senso interno alla narrazione si fa più palpitante: è un crescendo di pulsioni, di battiti interiori che sfuggono anche alla penna per entrare ovunque nella pagina: negli stessi spazi fra le righe.
Di notevole spessore psicologico il rapporto con il marito, un rapporto stanco, abitudinario: “…. Non vuole mai fare niente. Sai che sta facendo certamente a quest’ora? Sta davanti al televisore, seduto in quella sua maledetta poltrona, come un vecchio di ottant’anni, per giunta con una cuffia alle orecchie, in modo da isolarsi completamente dal mondo. Ed è così sempre, in ogni ora del giorno, tranne nei momenti del pranzo e della cena, e se voglio dire qualcosa, devo bussargli sulla spalla perché si tolga la cuffia e possa sentirmi”. Il marito Guido non ama i viaggi che lei spesso organizza con amiche e la loro comunicazione è inesistente: non amano le stesse cose né le condividono. La condizione della protagonista si estende – per lievitazione – a tanti casi oggettivi: ecco, da qui una riflessione che investe tutto il romanzo: i personaggi e le situazioni, pur avendo dei connotati peculiari, divengono paradigmatici e universali (qui sta anche la peculiarità di quest’opera).
“…Vorrei un marito che mi facesse sentire una donna, e invece da anni ormai siamo solo due coinquilini che litigano. Quand’è stata l’ultima volta che mi hai guardato come una donna? Quando l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?”.
Frasi come pietre che si lanciano a vicenda creando solchi non più sanabili.
Anche il marito con poche parole di fuoco le ribatte: “Ciò che non capisci è che sei vecchia, ancora cerchi l’amore, ma ti sei guardata allo specchio?”. Sono sintagmi crudeli, lacerti impietosi, ma incisivi e netti, lontani da ogni possibile tentazione di retorica.
E quando lei si decide a separarsi tutto diventa difficile: “… quando parlò con i figli, inseguendoli per telefono, senza riuscire ovviamente a convocarli da qualche parte, ottenne solo risate, disapprovazione e accuse di irrazionalità, con continui riferimenti alla sua età e al fatto che fosse assurdo, dopo tanti anni di matrimonio, separarsi”.
Sensi di colpa, rimpianti, cose non risolte, nodi da sciogliere dall’infanzia fino alla sua posizione di nonna con nipoti ormai grandi. Nodi che la tormentano, la condizionano e soltanto con un ritorno alla sua strada, via marchese di Montrone, forse Myrna riesce a perdonare, a perdonarsi e a fare pace definitivamente con il passato e con se stessa.
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