Un piccolo ritratto
Ho sempre letto e sentito dire che l’amico si riconosce nel dolore, nei momenti bui. Gli anni e l’esperienza, tuttavia, hanno modificato questa certezza. Ho notato che è facile fingere di condividere un dolore; più difficile è divenire felici per la felicità di un amico. Per cui la frase celebre “l’amico sicuro si riconosce nei momenti travagliati” dovrebbe essere modificata così: “l’amico sincero, quello vero, è colui il quale condivide le tue gioie, le tue vittorie, la tua felicità”.
Infatti, è assai rara la qualità dell’animo propensa a sentire contentezza quando gli altri sono contenti. L’essere umano ha per vizio capitale l’invidia (Dante mette in bocca a Sapia, in Purgatorio, questa sentenza: “Io fui dell’altrui danni / più lieta assai che di ventura mia”, cioè: io fui più lieta delle sventure altrui che delle mie gioie”). Condividere un momento di felicità con l’altro, significa essere privi dell’invidia, significa volergli veramente bene.
Ho dovuto correggere l’antico detto, a spese anche delle mie esperienze.
Se nel dolore trovi comprensione (apparente quasi sempre), nella felicità è molto più raro.
Ebbene, perché questo preambolo? Perché giorni fa ho perduto un amico sincero, di quelli che erano felici quando lo ero io (e reciprocamente il sottoscritto gioiva per lui e con lui). Enzo, mio cugino-fratello, eccelleva per mancanza di invidia, per generosità, per leale disposizione interiore. Enzo Forte, figlio di Anna Alessi sorella di mia madre, con la quale si può dire hanno vissuto insieme e, di conseguenza, anche noi figli siamo cresciuti nello stesso nido, condivideva con me una somiglianza fisica da gemello, ma mi superava in altezza di un buon palmo. Era di pochissimi anni più piccolo, ma da adulti la differenza temporale è diversa che da bambini. Abitando a Roma, appena chiuse le scuole veniva ad Albano per l’intera estate a casa mia, amatissimo ospite. Rammento che nei giochi di strada si schierava sempre dalla parte del più debole, difendendo le ragioni del vinto contro la prepotenza del più forte, a rischio di rimetterci di persona. Quando si andava a Orvinio, paese dolcissimo dei nonni materni, si partiva insieme. Per decenni le domeniche e le feste comandate ci siamo stretti intorno a un tavolo. Poi, il tempo tiranno è volato. Ci siamo ritrovati vecchi, a contatto telefonico continuo, senza mai aver tagliato un simbolico cordone ombelicale che ci legava di affetto e di sincerità.
Enzo era nipote dello scrittore e storico Natale Forte, a cui si deve una bellissima traduzione della “Divina Commedia” in dialetto sabino (una prova di alta filologia, che gli ha dato notorietà). Le amicizie di mio cugino – l’ho constatato di persona – sono durate tutta la vita: questo è un sintomo complesso, perché i fili del cuore umano si spezzano facilmente, e tenerli sani, duraturi nel tempo, richiede doti tutt’altro che comuni e quotidiane.
Hemingway scrive che se la campana suona, suona anche per te. Suona per tutti. Infatti, si muore un po’ per volta, perché coloro che amiamo riamati, dal momento dell’addio, si portano un po’ del nostro essere, della nostra vita, là dove vanno, precedendoci.
Appena in pensione, Enzo ha sùbito usato la sua giornata nel volontariato. Ed ho ricordo vivo di quando, bambini, lui piangeva allorché – in vista del pranzo domenicale – sua madre e la mia tiravano il collo alla gallina. Una tenerezza verso ogni espressione di vita lo distingueva da tanti di noi. Zio Peppino, fratello delle nostre mamme, teneva nel pollaio un’oca. Uno dei nostri cugini la indispettiva. Ricordo che Enzo lo afferrò per il collo ingiungendogli di lasciarla stare perché “soffriva come una persona”. E quando lo sciame sismico si impossessò dei Castelli Romani per mesi, Enzo ospitò nella sua casa alcuni parenti, per molto tempo (credetemi: non è generosità comune!). Ma la cosa che più mi mancherà di lui è la sua capacità intatta, sempre nuova, di scandalizzarsi del male del mondo e di aiutare chi stava in ambasce.
Ora, poiché non si creda che io faccia, per affetto, un’agiografia anziché un ricordo, chiudo qui, non senza sottolineare la totale dedizione alla sua famiglia, che egli vedeva non solo nel bocciolo intimo, bensì nel concetto esteso di “familiarità come amore, apertura agli altri”. E tutto ciò non lo ha mai predicato, giacché non amava la teoria: lo ha messo in pratica in ogni occasione, vivendolo nel profondo del suo essere.
Vorrei continuare, perché se è vero che non mancano uomini intelligenti, faccendieri, vittoriosi, imprenditori di successo; nel campo dell’amore disinteressato, del vivere esenti dalla livida invidia e dalla cupidigia, i numeri si restringono, purtroppo. Ed allorché da questi sparuti numeri si toglie qualcuno (a causa della morte), il vuoto si sente, subdolo e pernicioso.
(nella foto, da destra: Enzo Forte, Aldo Onorati e Natale Forte a una festa di famiglia)
grazie Aldo, sempre