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Un passato da tenere pancia a terra

Dicembre 17
23:00 2008

Quando una riforma prende a calci uno statu quo consolidato, oppure mette in evidenza una rete di inefficienze, è naturale che crei dei contraccolpi, se non delle vere e proprie reazioni a catena, come ci conferma il «decreto Gelmini» sulla scuola. Una contrapposizione che vede coinvolti studenti e genitori, professionisti della didattica e uomini politici, ognuno armato di parole dure, di speranze trasformate in carri allegorici delle ideologie, che confondono le idee, le progettualità, le stesse capacità di contribuire a raggiungere obiettivi comuni. In questo bailamme di primi della classe, di ideali sotto forma di offese, ecco a fare capolino la sbarra di ferro, il tubo contundente, il simbolo della virilità italica, teleguidata alla perfezione, appariscente e affascinante in tutta la sua stupidità utopistica. Nuovamente la storia diviene replicante di sé stessa, siamo noi a manomettere i dispositivi di sicurezza, a imbrogliare senza mai voler pagare dazio, eppure quella storia che tanti di noi hanno contribuito a formare, ci insegna che prima o poi il pegno s’è dovuto pagare, con il peso di mille tragedie scagliate addosso alla nostra coscienza. Giudicare quanto accaduto in quella piazza a Roma, è come sparare sulla Croce Rossa, il “chi ha iniziato per primo” è una domanda posta male, piuttosto c’è da alzarsi in piedi e smetterla di far finta di niente a fronte delle spranghe fasciste e dei caschi comunisti, occorre davvero stare insieme per non riproporre nuovamente tante assenze, maschere scomposte a declinare nomi e età inconfessabili. Tanti giovani a scontrarsi, a farsi male per un’idea? Un ideale? O un’ideologia tumorale che ricresce e si espande ogni volta che la frontiera del pensiero diventa recinto di filo spinato e non più nuovo spazio di comunicazione, un confine che separa, che emargina, ancor prima di ogni possibile incontrarsi e conoscersi. Non c’è affinità né parentela con quanto di più politicamente scorretto andava presentandosi durante gli anni di piombo, non c’è prossimità di una identificazione con “l’esordiente” terrorismo di ieri. Non esiste possibilità di ritornare al passamontagna calato sulle identità, alla moltiplicazione dei nascondimenti che comportano gli agguati alla vita. In quella piazza quei ragazzi hanno inscenato una rappresentazione teatrale non per fini catartici, non solo per frenare una riforma ritenuta provocatoriamente errata, o per difenderla dal «sottovuoto spinto» di un’altra concezione altrettanto sbagliata. In quella piazza la paura ha dettato i tempi e i bisogni di una intera generazione, giovani asserragliati nell’incertezza e nel dubbio, nella mancanza di un progetto e capacità politica e quindi prospettica, hanno lanciato il loro messaggio, e in quella violenza, in quella fisicità dei desideri e delle rinunce imposte, c’è tutta la drammaticità dell’ignoto a nome futuro, creato a misura dalla cecità improvvisa di un mercato che non acquisisce più apprendisti. In quella piazza non si sono difesi gli interessi di chi studia, hanno stravinto le deficienze intellettuali, le «furbate» ideologiche, le sintesi sciocche che hanno potere di autoassolversi, una vera e propria miopia politica che riduce ciascuno a comprimari dei soliti fascisti e comunisti in calzoncini corti. Blocco studentesco, studenti organizzati, plotoni schierati, dentro un passato che bisogna tenere pancia a terra se l’intenzione è di costruire davvero futuro, un passato che ci impone il comando della misura per non cadere nuovamente all’indietro, dove con l’inganno si scelsero di scavare le fosse per seppellire tanti e troppi innocenti.

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