Un partito
Di Tremonti ha parlato per primo, senza nominarlo, Veltroni (“governo tecnico”) seguito subito dopo da Bersani. Il Fatto, i primi giorni, sembrava incerto fra lui e Draghi. In realtà è una soluzione probabile, e non a caso è quella esorcizzata subito da Bossi e Berlusconi. Qualche rivoluzionario, come Beppe Grillo, preferirebbe direttamente un uomo Fiat, Montezemolo. Ma insomma si va in direzione Tremonti, non per governi “tecnici”, ma proprio per l’assetto finale dopo le elezioni. Se ce la fanno -se cioè Berlusconi si salva, se il centrosinistra ci casca, se non scoppia la Grecia nel frattempo – sarà il terzo ventennio, dopo quello di Mussolini e quello di Berlusconi. Ben diversi fra loro, i tre regimi, ma con una cosa in comune: la Fiat. Di Fiat, praticamente, non si parla più.
La crisi non è politica, è industriale. Comanda Berlusconi? Comandano Tremonti e Marchionne; che tendono a liberarsi, nello sfascio, dall’ingombrante duce e andare avanti da sé. Giovanni Agnelli fu il kingmaker di Mussolini. E Agnelli Gianni, quando ci fu da scegliere, fra Prodi e Berlusconi scelse il secondo. Così nessuno, nè fra i moderati nè fra i radicali ha minimamente citato i centrosinistri “liberal” (giolittiani…) come Ciampi e Prodi. Sarebbe stato naturale. Ma ora implicherebbe una rottura totale con la Fiat, che nella crisi si collloca (come nel ’22) all’estrema destra.
Questa è la situazione. E’ catastrofica non tanto in sé (Berlusconi ha molto meno consenso di quel che dice) quanto perché, essendo la sinistra (tutta) assolutamente priva di qualsiasi strategia, verrà facilmente egemonizzata dal centro e persino dalla destra, buon pretesto fra l’altro per le componenti peggiori del Pd per calar braghe e mutande in nome della solidarietà nazionale.
La solidarietà è necessaria, ed è necessaria non solo l’unità di tutta sinistra, ma addirittura un’apertura a componenti di destra. Non Fini e Lombardo, appendice di altri poteri; bensì la destra “minore”, antipadrini (un nome per tutti: Angela Napoli; oppure l’Azione Giovani di Palermo che tre anni fa, non sostenuta da Fini, si ribellò a Cuffaro). Bisognerà pazientemente disaggregarla e tenerla insieme, come coi “badogliani” monarchici nel ’43.
Questo non può avvenire nella “politica”, ovviamente. Ma può bene avvenire in una Resistenza.
Ecco, il centro di tutto è proprio questo. L’unica carta possibile è volare alto, essere e mostrarsi molto radicali, battersi apertamente per cambiamenti di fondo.
C’è un terreno su cui ciò è possibile e naturale, ed è la lotta antimafia. I boss mafiosi, oramai, in mezza Italia coincidono coi padroni; e sono sulla via di diventarlo nell’altra mezza. Ieri l’affare-simbolo era Gioia Tauro, oggi è l’Expo di Milano. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti, e il tradimento della Lega non riuscirà molto a lungo a nasconderlo anche al nord.
L’antimafia deve diventare il baricentro politico della sinistra, esattamente come la lotta antifascista lo diventò, a un certo punto, per la sinistra di allora. E’ facile per dei giovani, ma non lo è affatto per i vecchi politici, anche in buona fede. Ma anche per l’antifascismo fu così. Ci volle un salto in avanti radicale, un modo di pensare più giovane, quello dei giovani Gramsci e Gobetti; i vecchi della vecchia sinistra, anche buoni – i Nitti, i Turati, i Treves – rimasero irrimediabilmente indietro e non ebbero altro ruolo, anche se nobile, che di testimoniare una indifesa fedeltà.
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