Un occhio all’Unione – 2
Euro: fonte di integrazione o problema da risolvere?
Piercarlo Padoan, vice-segretario generale dell’OCSE, ha contribuito con il saggio “Il problema macroeconomico dell’Europa. Soluzioni nazionali e soluzioni europee” al volume “Perché l’Europa? Rapporto 2007 sull’integrazione europea”. Prendendo spunto dall’analisi di questo saggio Giorgio La Malfa, durante la presentazione del volume organizzata il 17 luglio scorso dalla Fondazione Istituto Gramsci e il CeSPI (Centro studi di Politica Internazionale), ha focalizzato alcune ragioni della crisi dell’integrazione e il futuro dell’Unione Europea dal punto di vista delle politiche economiche. Nell’ambito della politica macroeconomica è importante dare il giusto peso al ruolo svolto dall’euro. La Malfa fa notare che nel bel saggio di Padoan si legge più di una volta con inequivocabile chiarezza che l’euro potrebbe incontrare in futuro una crisi. Infatti, secondo Padoan, la divergenza fra tassi di interesse, tassi d’inflazione e produttività del lavoro è al momento troppo significativa. La strategia di sviluppo economico che l’Europa si è data, e che è conosciuta sotto il nome di Strategia di Lisbona, è certamente la strada corretta, ma non riuscirà a essere incisiva in presenza di divergenze troppo ampie.
La Malfa sottolinea che Padoan non può certo essere tacciato di antieuropeismo, eppure nel saggio si legge a chiare lettere un’affermazione piuttosto forte: “La sostenibilità della moneta unica se non si superano le divergenze nella competitività è sottoposta a pressioni crescenti”. Come per Padoan anche per La Malfa la soluzione è rappresentata dalla Strategia di Lisbona, ma quello che ci si deve chiedere è se si può avere una moneta che si attaglia a tutte le possibili esigenze dei vari stati che compongono lo scacchiere europeo.
La Malfa ricorda che durante la marcia verso l’euro il limite sottolineato da vari economisti americani, tra i quali Martin Feldstein, fu che la moneta unica avrebbe agito in un’area, quella europea, che non possedeva, allora come ora, né un bilancio pubblico comune, né flessibilità o mobilità dei fattori produttivi. In questi due elementi è insita la difficoltà del sistema a reagire di fronte a situazioni di shock, che potrebbero invece risolversi in presenza di un bilancio comunitario sostanzioso (attualmente si aggira attorno all’1% del PIL europeo) o che potrebbero essere affrontate dal mercato stesso se soprattutto il lavoro potesse usufruire di una maggiore mobilità.
La scommessa dell’euro viceversa fu proprio che l’uniformità della moneta avrebbe creato le condizioni affinché gli stati membri fossero costretti a darsi regole nel mercato del lavoro e nella finanza pubblica che ne avrebbero fatto un’area monetaria ottimale.
Lo studio di Padoan dice che questo non sta avvenendo; purtroppo le differenze regionali continuano a esistere dagli anni novanta a oggi. Per esempio i tassi d’inflazione, molto ridotti a cavallo della nascita dell’euro, vanno progressivamente divergendo. Come pure i tassi di produttività e di mobilità per unità di prodotto.
La Malfa conclude che la politica monetaria della BCE non può considerarsi estranea a tutto questo e che è totalmente inaccettabile che il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro sia del tutto sottratto alla decisione politica. C’è un articolo del Trattato di Maastricht dove si legge che “in mancanza di un sistema di tassi di cambio rispetto ad una o più valute non comunitarie (…) il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della BCE, o su raccomandazione della BCE, può formulare gli orientamenti generali di politica del cambio nei confronti di dette valute”.
Il problema, dice La Malfa, non può essere considerato di sola competenza della BCE. La tesi che il tasso di cambio dell’euro possa essere considerato irrilevante sia dal punto di vista dell’inflazione sia da quello degli effetti sulla domanda è inaccettabile.
Sarkozy lo fa notare. Se la politica monetaria in Europa è rigida e fondata solo sulla lotta all’inflazione allora si deve consentire una politica di bilancio più flessibile. L’idea che in Europa si possano avere politiche di bilancio severissime e politiche monetarie altrettanto severe richiede una fiducia nel meccanismo spontaneo dell’economia che soltanto una visione ideologica del funzionamento del mercato può avere.
Per l’Italia la combinazione sarebbe una politica di bilancio severa e una monetaria più elastica. Ma anche se Srakozy riuscisse nel suo intento di far ridimensionare il patto di stabilità, a noi non servirebbe perché il nostro problema è lo stock del debito troppo alto. Non ci potremmo permettere nulla anche se le regole cambiassero. Ma siccome l’Europa non potrà mantenere questa direzione a lungo succederà verosimilmente che le politiche di bilancio si attenueranno e di questo si avvantaggeranno i paesi che ne potranno approfittare e cioè Germania e Francia.
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