Un Maestro non diplomato
Quando squillano le trombe e borbottano i tromboni dei mass-media, vuol dire che è morto qualche personaggio celebre (pure se la popolarità deriva più da malaffare che dal genio e dalla bontà).
Ai miei tempi, in Albano, mi capitò quanto segue: le campane rintoccavano per un funerale; chiesi a un passante di chi si trattasse; ebbi in risposta: “Non è morto nessuno: è un contadino”.
Se noi riflettessimo un poco, scopriremmo che la Storia è fatta di omissioni infinite. Ad esempio, della piramide di Cheope si nomina solo il faraone, ma si dimenticano le migliaia di operai che hanno permesso, insieme alle maestranze dirigenti, la costruzione di quella meraviglia. E così via, pure per gli eserciti. Giusto in queste notti, mi sto leggendo la “Vita di Giulio Cesare” scritta da Petrarca: le vittime sono sempre migliaia, sia da una parte che dall’altra, ma – come in tutti i conflitti – si ricordano solo i capi, non gli anonimi che hanno permesso ai generali di vincere o hanno condiviso con loro la sconfitta. Insomma, l’oblio inghiotte subito una valanga di gente, alcuni veri e oscuri eroi di ogni giorno, lasciando memoria – per qualche decennio o secolo – di coloro i quali hanno fatto parlare di sé, in bene o in male. Tuttavia, se dovessimo dedicare anche una sola riga a ogni persona che muore nel mondo, ci vorrebbe un volume lungo da qui a Marte, tanti sono gli esseri che abbandonano questo globo del dolore ogni momento per non farvi più ritorno. Ecco perché tutti, o molti, cercano la gloria, la fama, la distinzione dagli anonimi: per restare nel ricordo labile di chi prosegue il cammino sulla strada minata della vita.
Perché ho fatto questo prologo? Per scusarmi e spiegare se parlo di uno sconosciuto, Vincenzo D’Arpino, mio vicino di vigna, morto ieri l’altro a 90 anni di età.
Mi si potrebbe chiedere: “Cosa giustifica tale ricordo che tu vuoi trasmettere a noi lettori? Cosa ha operato di notevole nell’esistenza il tuo confinante di campagna?” Rispondo: “Prima di tutto un dovere di affetto; secondo, una considerazione che farò via via nel discorso”.
Noi conosciamo tanta gente, veniamo a contatto con persone di ogni tipo, ma non sono molti quelli per cui piangiamo alla loro dipartita. E se piangiamo, vuol dire che c’è stato uno strappo dentro di noi, significa che qualcosa del nostro essere se ne va con chi ci precede nella tomba. Ma ciò avviene se coloro che amammo ci hanno insegnato qualcosa e sono entrati nel nostro cuore coi loro pregi, la simpatia con cui Natura stessa lega i viventi attraverso un misterioso vincolo che la ragione non spiega. Ecco: da quarant’anni parlo con Vincenzo, dal giorno in cui decidemmo, mia moglie ed io, di comprare un pezzetto di terra ove passare le domeniche coi nostri figli, i parenti, gli amici. E una strada provinciale divideva il mio piccolo podere da quello ben più vasto di Vincenzo: eravamo a vis a vis. Con gli altri contadini limitrofi non ho legato come con lui: eppure eravamo di età diverse, di cultura non uguale, di origini territoriali piuttosto lontane, ma entrambi di estrazione contadina.
Coi giorni e con gli anni, si è formato un legame sempre più stretto e fiducioso, fraterno. Mia moglie, ironizzando (ma avendo ragione) diceva che io andavo alla vigna metà tempo per lavorare, l’altra metà per parlare con Vincenzo. Usanza che si è protratta fino a pochi giorni prima della sua dipartita.
Lavoratore instancabile, padre di una numerosa famiglia, man mano che gli anni lo hanno obbligato a lasciare le fatiche della terra, come una vecchia quercia ha resistito ai malanni, tanto da non far sospettare una morte improvvisa, nonostante i nove decenni della sua lunga esistenza (ma la vita di chi si ama non è mai abbastanza lunga per noi mortali!).
Qualche volta, nei pensieri vagabondi, immaginavo il giorno in cui non avrei più visto Vincenzo seduto sotto la pergola antistante il mio cancello; mormoravo fra me: “Quel dì, le cose non saranno più come adesso”. E, infatti, tornato il giorno dopo nel mio terreno a cogliere i cachì, ho visto diversamente la stessa campagna e un velo di profonda tristezza ha mutato la mattinata lucente di sole in un nebbioso tramonto.
Da giovane invidiavo coloro ai quali Natura aveva elargito il supremo dono del sonno. Ora invidio le persone anaffettive, che in fondo sono le vere fortunate in questo mondo di addii.
Ma perché colloquiavo tanto con Vincenzo? Egli aveva studiato quel poco che i suoi anni e la sua cittadina potevano permettergli. Aveva viaggiato quel tanto legato alla guerra e al servizio militare. Però, la sua intelligenza acuta lo aveva trasportato in regioni distanti dal suo lavoro di contadino: egli era un filosofo nato, un pensatore equilibratissimo, lungimirante, un signore nei modi. Tagliava netto ogni qualvolta si intavolasse un pettegolezzo; non si è mai vantato dei risultati ammirevoli del suo lavoro onesto e durissimo. Ecco che, ancora una volta, dovevo dare ragione a chi asseriva non essere gli studi a fare un uomo, ma la Natura, la vita, l’esperienza. In Vincenzo trovavo quel “disintossicamento” necessario a chi, come me, è costretto, per professione, a stare in mezzo a intellettuali, scrittori, artisti malati di delirio di grandezza, di narcisismo, invidia e permalosità. In Vincenzo ritrovavo i tranquilli pomeriggi della mia osteria, quando, adolescente o ancora fanciullo, imparavo molte cose da chi non sapeva né leggere né scrivere, da chi non aveva la nevrosi del successo e riconosceva per istinto i limiti dell’essere umano.
Vincenzo non aveva eliminato del tutto il suo dialetto, che però io comprendevo chiaramente. Le sue considerazioni sugli uomini e l’esistenza erano frecce che andavano sempre al centro del tirassegno. Eravamo due agricoltori che, nella semplicità del dire, ragionavamo sui “massimi sistemi” senza saperlo. Oh, saggezza del cuore e della ragione, laddove non si annida il serpente velenoso dell’arrivismo e della supremazia personale!
E così, anno dopo anno, sono passati quattro decenni dal giorno in cui, comprata la vigna, venne spontaneo, al primo incontro, un saluto cordiale con quell’uomo asciutto, alto, scuro di pelle, col quale avremmo passato giornate sempre più intense, fino all’addio, doloroso, incredibilmente doloroso, di un maestro che non aveva alcun diploma, se non quello più importante che gli aveva donato la vita.
Un bel ritratto.