Un finale vibrante con Claudio Damiani
La serata non ha tradito le attese. La poesia “pallida e assorta” e la “muraglia” di Montale che raggiunge certo vette eccelse ma dimentica molto spesso il suo ‘manifesto’ iniziale in cui affermava “… i poeti laureati/ si muovono soltanto fra le piante/ dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti./ Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi/ fossi …”. Damiani no, non perde mai la strada della sua poesia nuda di orpelli e arzigogoli ma viva di vita, una vita che è essa stessa, attimo per attimo, buono o cattivo, un miracolo di poesia. Una coerenza assoluta nello scrivere e nel porsi. È stato detto in sede di presentazione che il senso della poesia di Damiani è nel piccolissimo laghetto di Fraturno, che egli tanto ama e che ha dato il nome alla sua prima raccolta di versi; un piccolo specchio, con una cornice verde e mobile di pioppi, nel quale però si riflettono tutti gli uomini, le vite e le emozioni di tutti gli uomini (per minima ad maxima, potremmo azzardare) e che col suo raccontare semplice e piano il poeta non enuncia ma fa poesia, che sta in ogni cosa. Ed ecco che il ‘manifesto’ poetico del Nostro si racchiude in versi di significativa lievità ed intensità: “Allora dico: non ci immaginiamo cose tanto strane/ ma guardiamo quello che ci sta vicino,/ lasciamoci ferire dalla sua bellezza/ e nella sua sapienza riposiamo il cuore.”. Un modo moderno, modernissimo per tornare alla poesia classica che poteva anche essere epica ma era soprattutto stupore della semplicità. La stessa con la quale Damiani si è presentato col suo fare gentile (si diceva imbarazzato e si schermiva dell’accostamento a Montale) accompagnato dal figlioletto più piccolo ed ha letto suoi versi di elogio di una ‘normalità’ dalla quale “imparo non sai quanto”. E si percepiva il pubblico colpito da un evento: aver scoperto all’ultima curva della pista cos’è poesia.
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