“Un eroe” di Asghar Farhādi con doppio finale amaro
Il film più bello fra quelli visti fin qui di Asghar Farhādi è Un eroe, 2021, giustamente pluripremiato a Cannes, giuria esigente perciò, molto oltre il già godibile Il cliente del 2016. Racconta ancor meglio l’odierna società iraniana intrappolata nel perbenismo del fare bella figura: stretta fra i ‘Dio ti benedica’, utilizzati per quel che sono, augurio e gratitudine e anche per tenere a distanza chiunque dalla ‘gente perbene’ che li va pronunciando in ogni occasione possibile. La ‘gente perbene’, non si tratta di lana caprina, accompagna sulla soglia dell’eroismo il giovane Rahim Soltani poiché, tormentato dallo scontare in prigione un ‘reato finanziario’ (non aver restituito un prestito), non approfitta d’una borsa piena di monete d’oro trovata dalla sua compagna per estinguere il debito, ma decide di restituirla al legittimo proprietario.
Ma niente è come sembra: il ‘proprietario’ è una donna che, riavuta la borsa, sparisce nel nulla; l’amministrazione carceraria lo sprona a qualche mezza verità per posizionarsi alta nei social fra gli ‘argomenti del giorno’ e far dimenticare alla gente gli ultimi casi di suicidio in cella; ma appena quelli che dovrebbero aiutarlo a riabilitarsi e trovare un lavoro espongono obiezioni di fronte alla storia riportata da Rahim, a causa di qualche particolare zoppicante, il protagonista è lasciato solo, alla berlina, anche dalle associazioni benefiche e da chiunque aveva cercato poco prima di aiutarlo traendo ‘visibilità’ dalla storia esaltante e dal volto bello e sincero di Rahim/Amir Jadidi. Colui che reclamando il debito l’ha mandato in prigione è l’ex suocero, anche la sua ex lo odia. Eppure riceve l’affetto incondizionato del figlio nemmeno adolescente che vive con lui, o in sua assenza con sua sorella, ed è per lui che Rahim deciderà che, nonostante tutto il fango che gli viene gettato addosso, deve mantenere ancora con i denti la propria dignità, tornando, dopo la licenza premio, da dove è venuto: a scontare il resto della pena in carcere.
“Un eroe” di Farhādi, indaga la relatività della morale odierna… con doppio finale amaro
Il concatenarsi della vicenda mantiene lo spettatore in allerta per gli oltre 120 minuti di pellicola. I volti di Rahim e suo figlio sanno commuovere laddove si scorge l’infinità del pozzo nel quale può finire oggi la reputazione d’un uomo, forse ingenuo ma non cattivo e neppure cinico, nel momento in cui ogni istante della sua vicenda umana e morale viene dato in pasto ad un pubblico che non lo conosce; pronto, per forza di cose, ad interpretare al contrario tutto ciò che guarda da spettatore, senza alcun sentimento diverso dall’odio e da una qualche forma di rivalsa con la sorte che sembra riversarsi dai social tutti nell’agóne pubblico. Così anche la società iraniana si accoda all’Occidente, in qualche caso giudicato male per i propri costumi, e la liberazione dall’incubo dell’incertezza e della relatività viene solo dal pianto d’un ragazzino balbuziente e dall’amore sincero d’una donna, Farkhondeh/Sahar Goldoost (volto da mille e una notte nell’elegante chador scuro), così da riconsegnarci un uomo per niente sfortunato e più libero della media dei connazionali, seppure ristretto in cella.
La penultima scena ci ricorda la commozione per le ultime inquadrature che chiudono Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica: lì l’impedimento al lavoro, era la mancanza d’una bicicletta per recarvisi inseguita come viatico di dignità; qui la dignità è schiava di fili invisibili che muovono protagonisti e opinione pubblica come marionette, il moralismo peggiore è solo l’eco della morale condivisa, dell’etica. Resta agli atti, giornalmente, il giudizio feroce di chi non sa leggere i fatti, o non gliene importa, accada quel che accada, fortuna che nella relazione social tutto scorre a velocità incontrollata verso l’oceano della dimenticanza.
La genesi di Un Eroe, è stata ‘pane’ nel suo paese d’origine fra i ‘denti’ d’una causa per plagio intentata a Farhādi, e da questi persa, da una sua ex allieva, regista anch’essa. Un doppio finale amaro. (Serena Grizi)
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