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Tuttalpiù muoio

Tuttalpiù muoio
Settembre 30
23:00 2008

9995-le-TuttalpiuNascere e crescere nella provincia umbra, che quanto a ristrettezza di vedute non ha niente da invidiare ad altre province, decidere che i propri valori di riferimento non sono né il matrimonio, né un lavoro per sfamarsi e vivere per sempre ai margini, né le cose che fanno tutti. Avere molti complessi e qualche disturbo grave, balbettare e diventare attore. La storia di Filippo Timi, ora la conoscono in molti, perché è approdato al cinema d’autore dopo lunga gavetta, di qualità, in teatro. Il punto del suo racconto, però, sembra non essere neppure la narrazione di un’infanzia difficile, una madre affaticata, e piena di fantasia come lui, il padre abbrutito dal lavoro, essere schiavi di quello che si deve fare e si deve dire secondo gli altri, ma sembra essere di più la ricerca spasmodica di un “centro”, la necessità di capire. Perché lo stesso protagonista è così e da cosa sono mosse le sue scelte dai più considerati scellerate; comprendere che la differenza “forte”, in fondo, quella che non ti scrollerai mai dai piedi, la fa la povertà. Nel momento in cui perde quasi del tutto la vista a causa di un virus capisce bene che non può più continuare ad accettare le bordate del destino come fossero possibilità e quanta differenza farebbe avere i contanti per contrastare con tutti i moderni ritrovati il buio crescente che gli impedisce di fare una vita quasi normale: eppure la malattia non gli impedirà di andare in teatro in bicicletta alla luce del giorno, e ritornare con la stessa bicicletta, ma di notte, in una corsa disperata contro il buio e la paura del “fuori” che diventa metafora sapiente delle fobie scatenate dalla mente. Con l’aiuto di Edoardo Albinati, Timi mette in piedi una biografia dai toni farseschi e a tratti deliranti, nutrita di compiacimento e satura di riflessioni che non lasciano mai il protagonista: abbasso i luoghi comuni, gli amici fino a che puoi uscire e spendere soldi, abbasso la fame, la sete (solo istinti che obnubilano la sostanza del pensiero), abbasso un se stesso omosessuale (forse), amico di ragazzi che si vendono come lui non farebbe mai. Un altro pensiero costante in una galleria di gente “normale” che alla fine è più “freak” di lui, sua cugina Daniela, docile e sfortunata: down, dipendente dalla famiglia, lei e sua madre stentano ad emergere ogni giorno dalla superstizione che le circonda eppure vivono un presente pieno, uno dei pochi affetti che sembrano condurre Filo fuori da se stesso, dalla sua “smania di fare” quando tutto ciò che è intorno sembrerebbe tifare per il contrario. Nonostante l’amore viscerale di Filo per il teatro, (in un capitolo il magnifico racconto di ciò che la scena è ancora capace di suscitare con la parola e il movimento e Timi nello spettacolo fa esercizi da circo nonostante la scarsissima vista), e la sua fortissima capacità di astrazione, la casa natale, la famiglia, il paese, la provincia, la povertà, e l’amore mai avuto dalla coetanea Sonia Sorci (qui citata per la prima volta, ma una vera ossessione per il protagonista per tutto il corso della storia) restano una specie di blocco granitico monumentale, tale perché esso resti a futura memoria esempio da non seguire, ma anche materia grezza, grezzissima (si vedano i dialoghi nell’ultimo capitolo – Filo in questo finale alternativo fa quello che tutti si aspettano da lui, ovvero si sposa) a cui ispirarsi. Ma la materia scatologica dell’ultimo capitolo non tragga in inganno: utilizzare un linguaggio basso quando la situazione lo richiede pone il suo libro tra i piccoli capolavori contemporanei (e i lettori sanno quanto siano pochi). Punti alti: gli ottimi esiti poetici in dialetto umbro, la teatralità di alcune soluzioni narrative, il racconto di una diversità che diviene sostanza nella presenza scenica. “Tuttalpiù muoio” E. Albinati – F. Timi – ed. Fandango

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