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Tu chiamale se vuoi, ‘pixo-grafie’

Tu chiamale se vuoi, ‘pixo-grafie’
Marzo 17
13:57 2014

da 'Il Settimo sigillo' di I. Bergman, 1957Nuove tecnologie all’orizzonte dell’estetica.
Al punto in cui siamo, scrivere, parlare o anche criticare quella cosa che definiamo ‘fotografia digitale’, potrebbe rivelarsi soltanto un puro esercizio di stile. Addentrarsi su questo terreno significherebbe spingersi su di un piano inclinato, un terreno particolarmente scivoloso, in cui le ragioni dell’uno finirebbero per parificarsi in qualche modo con quelle dell’altro, e non è così. Chi tesse le lodi di questa tecnica, molto spesso pone l’accento su presunti risvolti ‘ecologici’ della questione, assumendo toni da fine del mondo, alla ‘Greenpeace’, come se disastri ambientali quali Seveso o Bhopal fossero stati originati da immani sversamenti di sviluppi e fissaggi da parte di qualche incauto fotografo.

Un altro aspetto della questione riguarda la ‘democraticità’ del mezzo che consentirebbe a tutti, orizzontalmente, di essere produttori, archivisti e, in qualche forma molto remota, venditori delle proprie fotografie. L’altro argomento, vero cavallo da battaglia dei fan del ‘digitale’, è quello dell’abbattimento dei costi, rappresentati fino a pochi anni fa da carta, rullini ecc… . E qui, forse, ci potremmo stare, anche se, ad onor del vero, ogni lavoro ha dei costi: pensiamo solo a quello giornaliero della benzina per recarci sul posto di lavoro o la stessa usura dell’automobile. Pare incredibile, ma abbiamo preteso (o ci è stato imposto?) dalla fotografia cose che mai ci saremmo sognati di chiedere per qualsiasi altro genere di cose: salvaguardia dell’ambiente, autonomia, risparmio. La ‘fotografia digitale’ è, in modo incontrovertibile, intimamente molto più vicina alla ‘raccolta dati’, allo stoccaggio, alla parcellizzazione in segmenti, all’archivistica in senso stretto perché presuppone necessariamente anche minime conoscenze di informatica, e l’informatica per sua natura spinge il pensiero in una direzione, non in un’altra. Non verso uno studio della società o della natura in senso umanistico, o verso una critica dell’esistente, ma in un computo numerico, di censimento, di calcolo delle probabilità, dove tutto cade al millimetro al proprio posto. E molti fotografi si sono prontamente adeguati, in molti casi obtorto collo si deve riconoscere, neanche sospettando però di intavolare una partita a scacchi con la morte. L’idea o l’ideologia che sottende questo tipo di tecnica, una manomissione senza mezzi termini di piccoli scampoli di mondo reale, implica da una parte negligenza e ottuso dinamismo per chi fa fotografia professionale, dall’altra una impazienza quasi messianica per le procedure tecniche per chi la pratica a livello amatoriale. Modi di ragionare, di pensare le immagini che sono saldamente correlati. Vanno a braccetto. Una sciatteria e una iperproduttività dissennata che ricalca dinamiche da ‘ufficio acquisti’, da posologia farmacologica, una visione mercantile e in qualche modo asettica della società, che l’informatica, in quanto tale, favorisce e asseconda. In tutto questo, gli apparenti vincitori, chi cioè ne ha approfittato prima e meglio è stata l’editoria, i giornali, proprio loro che non vedevano l’ora di buttare fuori dalle redazioni fotografi e collaboratori non garantiti e che hanno colto immediatamente la palla al balzo: immaginiamoci la loro soddisfazione per essersi liberati, con poca fatica e pochissima spesa di sfacciati questuanti che assediavano le redazioni con pile di diciottoventiquattro e di diapositive. Ai giornali, alle riviste, per inciso, non gliene è mai importato nulla, se non in casi eccezionali come ‘Il Mondo’ di Pannunzio o ‘L’Espresso’ prima maniera, di immagini che raccontassero qualcosa, che vivessero autonomamente di vita propria. Erano e sono tuttora a maggior ragione interessati all’immagine che fa ‘colore’, folkloristica se va bene, in ogni caso a immagini a metà strada tra la muscolarità vanesia e ipertrofica da palestra di fitness e la volgarità di un video di MTV. La loro, in qualche misura, è stata comunque una vittoria di Pirro: giornali e riviste ancora più brutte se vogliamo, e il rischio reale della chiusura sempre in agguato, grazie anche e soprattutto a Internet. Gli si potrebbe sibilare in un orecchio “È l’informatica, bellezza!”, se non fosse una ben triste consolazione. Sarebbe profondamente sbagliato quindi considerare l’immagine ‘digitale’ come una rappresentazione neutrale, pulita, una sorta di faccia presentabile della fotografia come vorrebbero i grossi fabbricanti di tali macchinari: le pubblicità delle grandi aziende produttrici di macchine fotografiche non a caso puntano sugli aspetti giocosi del fotografare, sul divertimento, su opportunità compositive al limite della forza di gravità, su presunti ‘passi avanti’ resi possibili da scenografici dispositivi-appendice, da prolunghe robotiche, da colorazioni acide che non esistono in natura. Una fotografia sui trampoli, da apprendisti giocolieri, da Jimmy il Fenomeno, spensierata quanto basta per riportare tutto all’ordine, in una specie di Controriforma dello sguardo. Una fotografia giudiziosa, che soprattutto non dia fastidio, non faccia pensare. Tutto ciò legato ad un culto della tecnologia senza il più piccolo beneficio del dubbio, senza ‘se’ e senza ‘ma’, un incatenarsi mani e piedi ad una tecnologia fredda e cadaverica come solo può esserlo una scheda perforata o la scocca di un pc. Impegnati a dissertare di pixel e di ‘rumore’, di raw e megabyte non ci accorgiamo che la Fotografia ha assunto un altro significato, si sta trasformando inesorabilmente in qualcosa che si avvicina più alle riprese televisive, alle visioni da telefonino, alla grafica computerizzata. Che si posta e si tagga, guardandosi allo specchio. L’idea che passa, che è già passata è quella della centralità del macchinario, di quel tipo di apparecchio, e non l’uomo, con la sua umanità, i suoi saperi, con la sua indispensabile intelligenza. Quella intelligenza che ci dovrebbe fare perlomeno intuire cosa è ‘giusto’ e cosa è ‘sbagliato’. Che ci dovrebbe far desistere a saltellare stupidamente dietro ad una rana.

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