Transumanza
Domenico aveva dieci pecore e cinque figli, più uno in viaggio. Dopo averne parlato con la moglie per giorni e mesi e anni, decise di abbandonare il poco che aveva per andare a cercare fortuna intorno a Roma, dove si vendevano lotti di terra per farsi casa e le braccia d’un uomo erano richieste e ben retribuite al mercato del lavoro. Domenico vendette in blocco pecore ovile e casupola annessa, e caricata la famiglia e le poche masserizie sul furgone di un compaesano che commerciava in ferrivecchi, partì con la sua bicicletta e la borraccia dell’acqua verso un nuovo destino, fatto per ora di un fazzoletto di terra che aveva acquistato nella zona di Acilia con il ricavato della vendita di tutti i suoi possedimenti, di cui si era tenuto solo un agnellino per festeggiare la Pasqua, che era vicina. Dietro si lasciava la bella terra aquilana, monti e aria tersa e paeselli come presepi stabili, e quel rumore di acque e di pioppi che ti frusciavano nel ventre come sorsate di vita, e la nostalgia già si faceva sentire con l’odore d’incenso della pieve nei giorni di festa e dei pascoli quando dopo l’inverno si rigenera l’erba.
Domenico pedalava e progettava il futuro. Partiva per tornare, e questo lo sapeva bene. Ma per ora non doveva pensare al ritorno ma ad andare avanti. Con forza e volontà e gusto d’avventura. Il lavoro lo avrebbe cercato nei tanti cantieri aperti nei nuovi quartieri che sorgevano intorno alla città, avrebbe arrangiato subito una baracchetta per i primi tempi e intanto avrebbe tirato su casa con l’aiuto della moglie e del figlio maggiore che aveva già quindici anni, una casa col bagnetto e l’acqua corrente, l’orto e la fontanella per lavare i panni, e una pergola di moscato. E già immaginava Domenico la famiglia riunita attorno alla tavola in una casa col pavimento di mattonelle e le pareti affrescate di bianco, e il sole che girando batteva in tutte le stanze, asciutte e calde e odorose di bucato e di buona minestra, col canto della sua Argia che usciva dalle finestre e l’allegria dei suoi figli che contagiava tutto il vicinato.
Si ritrovarono a sera nella desolazione di un prato tutto buche e scoscendimenti, e Domenico subito montò una tenda in cui la famiglia trovò riparo dal fresco ancora pungente della notte, e mangiarono in silenzio pane e il loro ultimo formaggio e poi s’addormentarono stretti, come un pugno levato contro le avversità che si accalcavano palpabili attorno ai loro fiati.
Tutto andò come Domenico aveva immaginato. Il lavoro lo trovò il giorno dopo come manovale in un grosso cantiere a poca distanza da dove erano accampati. A Pasqua mangiarono l’agnellino che Argia aveva arrostito sulla stufa a legna posta al centro della baracca di legno e ferro. Il sesto figlio era nato una notte di giugno senza che nessuno quasi se ne accorgesse, vigoroso e affamato. Le fondamenta erano state gettate e i muri della casa crescevano a vista d’occhio, mangiandosi montagne di pietre impastate con malta e sudore. Il canto di Argia non si udiva, non sprizzava l’allegria dei figli, ma nello sguardo di tutti i membri della famiglia c’era l’unione che fa la forza, e la fiducia nel caposaldo che la cementa: il padre, silenzioso e presente come roccia aquilana.
Gli anni passarono in un lampo, e Domenico una mattina specchiandosi negli occhi della moglie vide che si era fatto vecchio. La sua stirpe era arrivata alla quarta generazione, e gli ultimi arrivati non conoscevano la storia della famiglia e la sua provenienza, o credevano che fosse una favola il racconto del nonno pastore di dieci pecore che lascia l’Abruzzo con un sogno in tasca e la volontà ferma di realizzarlo. Era ora di tornare a casa, Domenico lo capì quella mattina, colato a picco nel profondo sguardo della sua donna, che gli restituiva il desiderio comune: l’aria dei loro monti, la terra dove tornare e stabilirsi per oggi e per sempre.
Domenico aveva fatto molto di più di quello che aveva creduto possibile. Ma ora tutto quello che desiderava era possedere una casetta in un paesino vicino a L’Aquila, e lì andò a vivere con la moglie, aspettando la visita dei figli, nipoti e pronipoti che nei giorni di festa andavano a trovarli.
Non potevano immaginare che nella notte di un aprile già odoroso di erba nuova si sarebbe scatenato l’inferno. Tremarono insieme alla terra, Domenico e Argia, e si abbracciarono stretti come quando erano giovani e innamorati e ardenti, ma non abbandonarono la loro casetta lesionata, decisi a rimetterla in sesto senza perdere tempo.
Erano tornati per restare, e ne erano più convinti che mai nel vedere la loro terra squassata, ancora tremante, bisognosa dell’appoggio di ogni suo figlio.
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