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Transitus

Ottobre 27
15:26 2010

AUTUNNO

Per le strade antiche di Roma, le formiche umane sciamano. Senza sosta, senza sonno, senza tempo.
Occhi infossati in volti impassibili, di pietra, come quelli di totem primordiali. Bocche mute, dal taglio crudele. In terra, pozze di pioggia recente rivelano un cielo di azzurro cristallo, algido, difeso da immensi bastioni di nuvole color ferro. Sotto quel cielo sdegnoso e incorruttibile le formiche umane vegliano, senza potersi fermare.

DIES IRAE
Il Viaggiatore prese posto sul treno poco prima delle quattordici, ora prevista per la partenza. Distrattamente scorse qualche pagina d’un quotidiano e mentre il convoglio si avviava con lentezza pachidermica notò invece la data e la festività del giorno: domenica delle Palme. Gli tornò alla mente il paese che tanti anni prima aveva lasciato in treno, un treno dal quale di fatto non era più sceso a causa del suo lavoro itinerante. Con un sorriso mesto ora si lasciava scorrere dinanzi agli occhi le immagini sbiadite di quando, al paese, vide per l’ultima volta la processione delle Palme: canti, colori, suoni, gente ansimante per il caldo e l’ardente passione. Anche adesso faceva caldo, un caldo insolito per una stagione normalmente mite. Pur stando perfettamente immobile avvertiva, sulla schiena, la formazione di minutissime goccioline di sudore che si univano in un filo e tanti fili che si univano in un unico rivoletto.
Il treno penava sulle rotaie ed ogni tanto gemeva come un bue ferito. “Ancora due giorni!” pensò sgomento il Viaggiatore, considerando che sarebbe giunto nella lontana capitale solo mercoledì mattina. Tentò allora di dormire ma il calore vigilava affinché ciò non accadesse. Verso sera, sfinito, riuscì ad aggrapparsi ad un lembo di sonno. La notte trascorse senza riposo, come fosse appesa ai fili retti da un burattinaio ubriaco. E infine, l’alba.
Il Viaggiatore si destò di soprassalto, con gli occhi sbarrati. Una coltre greve di afa già incombeva sul paesaggio e, quasi senza volerlo, il suo pensiero andò a tutti coloro che in quello stesso momento, con immane fatica, si apprestavano a rimettere in moto quel complesso di ruote dentate che è il vivere quotidiano. Il finestrino del treno gli sembrava come un grosso monitor su cui ora scorrevano senza sosta campagne, città, fiumi, villaggi che si fendevano sotto la veloce lama del treno. Quella fuggente e impunibile violazione d’intimità, dove tu vedi tutti ma nessuno vede mai te, gli provocava un’ambigua sensazione a metà tra il piacere e la nausea.
A tutto ciò pensava il Viaggiatore quando il treno, già in frenata, con un ultimo sussulto si fermò in aperta campagna, nei pressi d’un piccolo borgo. Distolto dalle proprie riflessioni, si affacciò al finestrino per scoprire la causa di quella fermata imprevista: solo un semaforo rosso, una questione di precedenza fra treni. Il villaggio giaceva esanime nella piana rovente, adagiato tra i campi come una matrona opulenta ed annoiata. In quel punto la ferrovia lambiva una piazzetta, sulla quale un modesto caffè sbirciava col suo unico occhio malinconico. Un capannello di contadini ciarlava stancamente sulle temperature insolite della stagione, mentre un tipo asciutto, anziano, ricoperto dalle vestigia d’una antica divisa da ammiraglio si avvicinava con passo incerto al gruppetto di avventori. Quando fu alla loro portata, indugiò su ciascuno con un vago sorriso beffardo, poi bofonchiò: “Questa volta ci siamo!”. Nello stesso istante il treno si mosse. Il Viaggiatore rimase perplesso, quasi stizzito, per non aver potuto assistere al finale della scena, che certamente avrebbe chiarito il perché di quel curioso siparietto. Ma già un vago senso di intorpidimento ora lo pervadeva; i pensieri aggrovigliati si slegavano, prendendo ciascuno vie diverse. Un breve sonno lo rapì.

* * *

Il treno ora procedeva veloce ma senza forzare troppo, in mezzo alla teoria di case, strade e terre. Ovunque si vedeva scemare l’animazione, mentre le prime luci imperlavano la sera. Poi più nulla, tutto di nuovo inghiottito dal gorgo della notte, tranne un vegliante: il Viaggiatore. Anche il giorno del Martedì Santo corse veloce ad abbracciare il buio, attraversando impassibile la crescente tensione che sempre più traboccava da ogni parte e a tratti sembrava sommergere perfino lo stesso treno.
Il caldo aveva ormai raggiunto punte estreme, insopportabili. Creature boccheggianti, inutilmente in cerca di ristoro, si aggiravano ovunque come ombre di dannati. Radio e televisione cominciavano ad ammettere con una certa ritrosia che sì, effettivamente c’era qualcosa di strano in quella stagione atipica, cercando di diffondere generiche notizie rassicuranti. E adesso anche la notte attendeva tutti al varco, seduta in trono, ingioiellata d’ogni possibile luce insonne, per nutrirsi di tormento. Quando ne fu sazia, discretamente scomparve ed il treno finalmente riuscì a gettare gli ormeggi nella capitale.

* * *

Il Viaggiatore, scotendosi, si sentì inguainato in una pellicola di sudore gelato. Raccolse il bagaglio e scese in fretta. La stazione era appena lambita da un raro formicolio di persone e tra una pensilina e l’altra filtrava la cipria bluastra della penombra. Confrontò il proprio orologio con quelli situati in testa ad ogni binario ma il responso fu univoco: erano con certezza le nove e trenta del mattino. Vagamente perplesso e guardingo il Viaggiatore si avviò all’uscita.
La piazza antistante la stazione centrale era estremamente ampia, degna della capitale, ma lo sguardo veniva calamitato verso l’alto. Il cielo era ingombro di nuvole nere, compatte, unite tra loro senza la minima fessura; un sottile nastro di vivida luce ne guarniva l’orlo inferiore, verso ponente. Così la città, nonostante fosse giorno inoltrato, si dibatteva in una innaturale semioscurità, mentre un vento teso e fresco – che soffiava fin dal giorno prima – spazzava via foglie secche e cartacce. L’attività della metropoli ferveva come al solito ma il rumore di fondo si percepiva più attutito, ovattato: la generale inquietudine fungeva da solvente.
Il Viaggiatore provò un senso di solitudine quale mai aveva conosciuto. In quel momento, per la prima volta, ne avvertì tutto il peso millenario. Come destandosi da un lungo sonno vedeva finalmente il faticoso, inutile arrancare delle creature umane sotto un cielo assente e, più che sgomento, sentì il cuore stretto in un’infinita pena. Guardò la scogliera scura dei palazzi e si avviò verso le sue gole, in cerca di riparo.

* * *

Mattina del Giovedì Santo. Il Viaggiatore, sprofondato nel fondo d’un povero alberguccio, si alzò stancamente dal letto ed aprì la finestra. Un sussulto di orrore lo fece retrocedere di qualche passo ed un incontenibile terrore gli impediva di riaccostarsi. Meccanicamente si guardò allo specchio, passandosi più volte la mano sui capelli grigi e sulle rughe incipienti, non riuscendo altro che a mormorare più volte il proprio nome: Velthur, Velthur, …… Poi d’improvviso si fece impassibile e si riaccostò alla finestra.
La fascia di viva luce bianca che fino alla sera prima aveva immutabilmente acceso l’orizzonte s’era fatta rosso fuoco, ed ora tutte lo scenario urbano appariva riverberato da un forte bagliore di fiamma. Velthur sentì il bisogno di uscire: il chiuso della stanza s’era fatto soffocante. Lungo le strade la gente camminava rivolgendo costantemente lo sguardo verso l’alto, con un disagio sempre più tangibile. Il popolo metropolitano, in genere tetro e spietato, stava perdendo la sua sdegnosità: erano ormai moltissimi quelli che cercavano di incrociare lo sguardo con qualcun altro, cercando una risposta o anche semplicemente il conforto della condivisione, della solidarietà.
Il vento era intanto aumentato d’intensità. Il furore di quello scenario apocalittico, da cui trasudava un senso come di contaminazione, mostrava adesso il presagio di un inesorabile dies irae.
Un giornale, occorreva un giornale. Concitatamente Velthur ne comprò uno, lo aprì e ne scorse rapidamente le pagine in cerca di notizie sugli eventi in corso: assolutamente nessuna. Di contro, aveva largo spazio un comunicato dei Sacri Palazzi con cui si rendeva noto che il Gran Vegliardo avrebbe ripreso una tradizione abbandonata ormai da secoli, guidando personalmente nel pomeriggio una solenne processione penitenziale che si sarebbe snodata per le vie della capitale per poi concludersi in una veglia di preghiera. In un commento a margine, seppur limitato a poche righe, un autorevole opinionista rilanciava sommessamente un’ipotesi circolante, ossia che una decisione così clamorosa potesse avere un qualche nesso con i mutamenti climatici in corso, ma le fonti ufficiali replicavano seccamente che l’iniziativa era esclusivamente legata all’ormai prossimo Anno della Perdonanza. In ogni caso la notizia era assai rilevante, anche perché il Gran Vegliardo non usciva da anni dai Sacri Palazzi né era più ricomparso in pubblico dopo la sua elezione, tuttavia ciò non riusciva ad attrarre la mente di Velthur. Essa vagava lontano, oltre l’emozione e lo stupore del momento, in un viaggio a ritroso che portava fino all’amniotico buio del grembo materno, oltre il quale doveva pur esserci una terraferma……..
Le ore adesso cadevano in fretta. Il cielo s’era fatto più nero e più rosso; il vento ancora più forte e gelido. I passanti erano rari, mentre balconi e finestre s’erano popolati di gente in attesa. Chi attendeva la processione, chi la pioggia, chi qualunque altro accadimento che potesse sciogliere l’enorme tensione accumulata. Era una folla molto mobile ma estremamente silenziosa quella che fioriva dalle nere occhiaie dei grandi cubi forati e a guardarla dava una certa vertigine.
Camminando e rimuginando, senza accorgersene, Velthur era giunto alla cattedrale. Dinanzi al tempio poche decine di persone sostavano infreddolite, anch’esse in silenzio. D’un tratto una leggera animazione: era l’ora. Uscendo dalla cattedrale quattro turiferari precedevano il vessillifero, un po’ incerto sotto il peso d’un immane simulacro in legno dorato, alto almeno quattro metri. Seguivano una cinquantina di accoliti e una folta schiera di dignitari, tutti col viso arrossato dal freddo e con le vesti svolazzanti. In lontananza, oscillante sopra la moltitudine di teste e confuso dai fumi d’incenso, s’intravedeva il baldacchino avvicinarsi. Ed eccolo, gravato dai solenni paramenti, glorificato dalle insegne della sua autorità spirituale: Larth, il Supremo Ecclesiarca.
Assiso sul trono gestatorio appariva ancora più maestoso. Alto, solido, capelli bianchi e lunga barba grigio ferro, occhi magnetici, Larth era un asceta dal magistero inflessibile: durante il suo ventennale e volontario esilio nei Sacri Palazzi aveva saputo ugualmente guidare con fermezza e carisma il suo indocile gregge. Dietro il baldacchino incedevano i componenti del Sacro Consesso, poi altri notabili, dignitari, esponenti delle varie organizzazioni legate ai Palazzi. I pochi presenti si accodarono mentre la testa del corteo si era già insinuata nel dedalo di strade cittadine. Velthur era turbato, magnetizzato da tanta solennità, sicché si ritrovò quasi inconsapevolmente a camminare accanto a tutti gli altri. Man mano che la processione avanzava molti uscivano dalle case e dopo due ore era diventava un fiume in piena. Una voce solitaria ruppe all’improvviso l’alto silenzio ed iniziò a salmodiare un antico inno; timidamente altre voci si unirono, poi altre ed altre ancora, finché non fu un unico possente coro.
Ormai da due giorni il sole, apparentemente, non sorgeva né tramontava, e ciò che in altri tempi sarebbe stato il cuore della notte era ora qualcosa d’indefinibile, sospeso in un vuoto pneumatico. I processionanti si ristoravano di tanto in tanto con parche vivande, senza interrompere il cammino. Ad un’ora collocabile attorno alle dieci antimeridiane del Venerdì Santo l’immenso corteo raggiunse la piazza della stazione. Moltissimi vi trovarono posto ma la gran parte dovette accontentarsi di lontane retrovie. Al centro della piazza, su un alto podio e sotto un baldacchino fiorito di fregi barocchi, il trono di Larth. Decine di migliaia di persone si stringevano l’un l’altra cercando calore e conforto, ma quella folla ondeggiante aveva ormai un solo punto di riferimento e di speranza, il Gran Vegliardo. Lui meditava, chiuso in un austero silenzio, ma avvertiva il peso che quella folla gli poneva sempre più sulle spalle. E si sentiva ancora più solo.
Lunghe ore di preghiera si susseguivano uguali. Intorno alle quindici un rombo cupo, come di terremoto, squassò la barriera di cristallo interposta tra cielo e terra. Dopo un boato più forte iniziò a piovere e fu il terrore: dal cielo cadevano fittamente grosse gocce che avevano l’apparenza e la consistenza del sangue. Spinta con forza dal vento, la pioggia flagellava i veglianti con effetti orribili sulle vesti e sulle cose, tanto da creare la perfetta sensazione di trovarsi in un enorme mattatoio. Dopo l’impatto iniziale, però, il cieco panico si stemperò, dapprima in cupa rassegnazione poi in accorata implorazione. Moltitudini di visi piangenti, diversi eppure così uguali, umilmente invocavano l’aiuto del cielo con gli occhi disfatti e la bocca piegata quasi in un sorriso riconoscente. Era forse il segno di un prepotente desiderio di espiazione, come di redenzione da ignote colpe ataviche di cui, pur essendosi perse le origini, restavano tuttavia intatte le ombre, non meno grevi e inquietanti.
Sembrava che i veglianti si stessero un po’ rincuorando, allorché un nuovo urlo attraversò la folla come le incrinature in un vetro prossimo ad infrangersi: la parte di cielo ancora luminosa si andò rapidamente oscurando, fino alla caduta d’un impenetrabile sudario di tenebre. Non c’era luce elettrica, non la minima sorgente luminosa poteva resistere sotto l’imperversare della bufera. Si era ormai al buio assoluto e Velthur, pur stravolto e sballottato, non poté fare a meno di pensare ad esso come alla materia primordiale da cui esplose la Creazione.
Furono lunghissime, penose ore di caotica disperazione: grida, preghiere e bestemmie si fondevano e annaspavano inutilmente nell’aria; corpi aggrovigliati e bagnati cercavano di districarsi per sfuggire a quella mattanza che, pure, non faceva vittime. Nel suo angoletto Velthur provava quel particolare desiderio di piangere che accomuna i poli estremi della disperazione e della gioia.
Fu la voce di Larth a sovrastare all’improvviso il cieco furore dei veglianti. Solenne, stentorea, levava in alto invocazioni simili ad esorcismi e col passare delle ore essa sola rimaneva, senza cedimenti, a testimoniare il dolore di quella gente sfinita ed affamata. Velthur immaginava il Larth di quel momento supremo fino a “vederlo”, eretto in tutta la sua imponente figura, con le braccia tese drammaticamente verso l’alto e la bianca veste che la tempesta non riusciva, non poteva riuscire a tingere di rosso. Ma invece anche quella voce cominciò ad un tratto a vacillare, mentre d’intorno ormai non si levavano altro che flebili lamenti invocanti “pietà…” Infine cadde pure quell’ultimo baluardo e sul profondo, disperato sonno degli uomini si riversava, a ondate, il muggito degli elementi.

* * *

Velthur giaceva supino, col capo poggiato su qualcosa di duro e scomodo; sulla guancia destra avvertiva una sensazione di piacevole tepore. Faticosamente cercò di aprire gli occhi, di vincere sia il pesante torpore che il senso di abbacinamento che gli dava la luminosità filtrante attraverso le palpebre. Quando finalmente riuscì a recuperare il pieno uso sensoriale fu folgorato dallo stupore. Lo scompartimento ferroviario era vuoto; sul sedile c’era solo la valigia che gli aveva fatto da cuscino. Mentre si massaggiava il collo indolenzito guardò fuori del finestrino aperto: il paesaggio era di un intatto nitore, il cielo azzurro intenso, il sole dardeggiante.
Macchinalmente Velthur si guardò le mani e i vestiti, sgualciti ma asciutti e senza macchie, poi si scrollò di dosso un’immaginaria polvere. Ancora, guardò la data sull’orologio e si accorse che era Martedì Santo: aveva solo dormito un po’ più del solito. Con un fondo di perplessità raccolse da terra il giornale ormai vecchio di ventiquattrore e prese ugualmente a sfogliarlo, distrattamente. Dopo un po’ cominciò a percepire una sensazione di caldo, un caldo afoso e sgradevole. Pur stando perfettamente immobile avvertiva, sulla schiena, la formazione di minutissime goccioline di sudore che si univano in un filo e tanti fili che si univano in un solo rivoletto. Velthur allora, senza interrompere la lettura, con gesto meccanico cavò da una tasca un arruffato fazzoletto con delle chiazze color rosso vivo e ci si asciugò la fronte, lasciandovi un paio di leggere strie rosate.
Intanto il treno penava sulle rotaie ed ogni tanto gemeva e sbuffava come un bue ferito. Ben presto si confuse, in lontananza, nella tremolante nebbiolina d’afa che iniziava a salire dall’orizzonte.

ESTATE

Dietro il vetro della finestra Anthorr osservava il mondo esterno, perplesso. Anche se il calendario diceva trattarsi dell’otto agosto, la pioggia cadeva fitta e sottile, quasi senza rumore. Una leggera nebbiolina aleggiava a mezz’aria, confondendo cose e persone, attutendo suoni e movimenti. Tutto il cielo visibile era un’unica coltre: cinerea, compatta, opprimente.
Da oltre sei mesi pioveva. Giorno e notte, la stessa pioggerellina snervante cadeva, impalpabile, silenziosa, senza scampo. Mai un acquazzone, mai una schiarita, mai un tuono. La città si era ormai abituata; perfino sulle pietre si potevano cogliere i segni della cupa rassegnazione generale. La vita, un tempo frenetica, si era assopita e diradata sotto il peso di quell’umido sudario.
Visto da fuori, il viso di Anthorr appariva imperlato di pianto, ma solo il cielo piangeva; lui no, non ci riusciva. Così, d’un tratto, si ritrasse dalla finestra e senza alcuna speranza si dispose ad attendere un altro inutile giorno.

Il cielo era grigio d’afa e l’aria ardente si respirava come da una sigaretta. Stranamente, non c’erano automobili parcheggiate né in transito; non c’erano passanti, le persiane erano chiuse, la luce era forte e diffusa anche se il sole era scomparso da settimane. Un orologio stradale segnava le otto e venti ma, forse, erano le quattordici. Camminavo affranto dalla eccezionale calura, svogliato e distratto, attardandomi verso casa; ero stanchissimo, più di quanto fosse ragionevole aspettarsi in un giorno simile.
Così, forse per caso, mi ritrovai ad un piccolo crocevia che raramente avevo attraversato. L’uomo era seduto in terra, addossato ad un muro d’angolo, e lentamente girava la manovella di un apparecchio molto simile ad un antico fonografo a tromba.
– <em>Forse è il solito accattone! </em> – pensai sulle prime, poi mentre mi avvicinavo riflettei – <em>Strano, però, che non esca alcun suono da quel curioso strumento! </em>
Gli passai davanti, assente, di nuovo oppresso dai miei pensieri.
– <em>Sirio! </em>
La voce che mi riportava violentemente in emersione aveva in quel momento un suono stonato e terribile. Ero annichilito dalla sorpresa.
– <em>Sirio! </em>
Quel nome rimbalzava all’infinito nella mia mente quasi fosse l’eco delle trombe del Giudizio.
– <em>Si? </em> – fu forse la mia anima a rispondere. Mi voltai lentissimamente.
L’uomo, sulla cinquantina, fisico asciutto, aveva capelli neri curati ed un sorriso che stentava a farsi largo tra la barba incolta. Era vagamente sudato. Ci guardammo dritto negli occhi per qualche istante, poi fu lui ad incrinare l’immenso silenzio.
– <em>Non meravigliarti se io conosco il tuo nome, sappi che è anche il mio. Non credere che io sia un mendicante; non credere sempre e solamente a ciò che vedi e tocchi. Forse, c’è più certezza in un sogno……. </em>– disse con voce piana e suadente, dalla quale tuttavia traspariva come un impercettibile affanno, una segreta sofferenza.
– <em>Ma chi sei? </em>– risposi con una certa inquietudine.
L’uomo parve non curarsene, proseguendo nel filo del suo discorso.
– <em>Dietro il più piccolo dei nostri sospiri c’è in agguato l’infinita pena che dà il vivere, pronta a scaricare su di noi un’onda di mareggiata, gonfiata da millenni di esistenze. E questa trappola mortale si fa più minacciosa la sera, quando torniamo affranti e ci troviamo più soli con noi stessi. È lì, sulla soglia di un’inutile notte, seduta, ad aspettarci. La nostra casa allora si slarga, diventa un enorme anfiteatro deserto, e al centro dell’arena noi saltimbanchi, curvi, teniamo fra le mani il nostro vero viso, disfatto. È questione di un attimo: l’ondata ci si schianta addosso, implacabile. </em>
Ora ero senza fiato, come se un faro fosse stato acceso all’improvviso nei sotterranei della mia mente e mi sentissi nudo.
– <em>Non….capisco…..</em> – riuscii ad articolare flebilmente.
L’altro Sirio continuò a parlare seguendo un suo filo logico, come se nulla lo potesse turbare, guardando verso un punto lontano visibile a lui solo. La pacatezza della voce aveva sonorità da violoncello.
– <em>Ci sono notti in bilico sull’orlo di un abisso, eppure deserte. Sono notti che a girarle non basta un’intera città. E il silenzio ti angoscia. Guardi le persiane chiuse e ti domandi come quella calma snervante non faccia schizzare giù dai letti la gente terrorizzata. Anzi, già ti aspetti che da un momento all’altro fiumi di gente seminuda si riversi in strada, disperdendosi in mille rivoli urlanti, tentando di sfuggire il lezzo orribile di quella notte stellata, immobile e senza suoni. Ma come al solito non succede nulla e allora torni a casa, deluso e distrutto, per tentare d’inseguire quel tuo inafferrabile sonno che ti imperla la fronte di sudore e popola la tua stanza di muti fantasmi seduti qua e là. Così, mentre tutta la città dorme, tu solo avresti voglia di correre giù in strada, urlando. </em> (Pausa, quasi un’esitazione). <em> Per questo sono qui. Questo strumento serve a risucchiare la notte ed a costringerla entro la scatola. Finché girerò questa manovella non ci sarà notte, non ci sarà più solitudine né insonnia. Devo farlo. Per te, per tutti voi. Ed ora va’. Forse un giorno capirai, ma intanto sappi che forse non hai sognato. </em>
Avevo in testa come un ronzio, una gran confusione. Tutto era così strano quel giorno: la luce senza sole, il caldo, le strade vuote ed ora quell’uomo. Ero mortalmente stanco. Mi trassi indietro dapprima lentamente, poi cercai di affrettarmi verso casa, in preda ad un forte turbamento. Gli ultimi scalini furono faticosissimi. Entrai in una fresca penombra, ferita da due lame di luce polverosa; individuai il letto e stramazzai di colpo, fulminato dal sonno.

* * * * *

Mi risvegliai madido di sudore. Nel buio più completo, ascoltavo il ticchettio della sveglia mentre mi tormentavo tra i cuscini. Così mi alzai di scatto ed andai ad aprire la porta-finestra, senza accendere la luce. Uscii sul balcone.
Una luna altissima colava il suo bianco languore sul cemento ancora rovente, quasi ne volesse lenire le piaghe. La notte era calata pesantemente, come una coltre funebre; o forse era più simile ad un pallone aerostatico sgonfio, osceno nella sua mollezza, comunque invulnerabile alle lacerazioni provocate da solitari nottambuli. Intanto era comparsa qualche rara automobile. Ognuna, come un abile ago, forava rapidamente il silenzio, seguita da una tenue scia di rumore che cuciva e teneva unito uno spazio altrimenti troppo vasto.
– <em>Dunque, è giunta anche questa notte. </em> – pensai con sgomento – <em>Eccola lì, adagiata sulle case come un tendone da circo. Forse colui che vi si avventasse contro armato di coltello scoprirebbe con orrore che dietro quel telo nero ce n’è un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora, in una estenuante sequela di lugubri “matrioske”. Povero Sirio! Fosse vero ciò che tu affermavi con tanta sicurezza! Potesse l’uomo avere un simile potere! Però io ti ho visto sereno, consapevole; avevi la composta fierezza, l’intima forza che sicuramente illuminò anche il viso di Davide appena ebbe ucciso Golia……..Io sono qui insonne e tu chissà dove sei, anonimo e quieto. Forse sei ancora lì, in quell’angolo, col tuo strano apparecchio, con la tua lucida follia da Don Chisciotte. Fammi bere di quel liquore che ti dona l’ebbrezza divina!……Tu hai detto che forse non stavo sognando, sentendoti parlare. Vorrei cercarti, trovarti, chiederti tante cose. Vorrei il dono di una sola certezza: che veramente il tuo congegno funziona, perché questa notte è dura. Ma se tu fossi ancora lì a girare la manovella, se non mi hai burlato, come potresti conciliare la tua fermezza col buio che ci sovrasta entrambi?……..Per ora so che dovrò affrontare da solo anche questa notte e che in compagnia degli antichi fantasmi e di un nuovo dubbio approderò a domani………….Forse. </em>

IL TELEFONO

Tanti anni fa, da bambino, abitavo in un modesto quartiere popolare. Era una via tranquilla, un po’ defilata, che ci consentiva di usare l’asfalto come campo di calcio. Ci si divertiva con poco. Qualche rara bottega si affacciava sonnolenta sui nostri giochi, ma nessuno aveva motivo né voglia per lamentarsi dell’altro. In particolare, ricordo l’uomo delle pompe funebri. A meno che il maltempo non lo costringesse altrimenti, sedeva tutto il giorno fuori della sua tana, fumando lentamente e guardando il cielo.
Ogni tanto squillava il telefono. Per me aveva un suono terribile, sanguinoso. Sapevo che ad ogni chiamata corrispondeva una vita in meno, un lutto, una famiglia in lacrime. Quando udivo quello squillo rabbrividivo e mi bloccavo: i compagni mi passavano la palla inutilmente, strepitavano, ma io non sentivo altro che quello squillo enorme e stonato.
Ormai sono trascorsi tanti anni e tante rughe, ma io odio il telefono.

IL TRENO PER FAMAGOSTA

(Diario di viaggio in un prologo, dodici quadri e un epilogo)

PROLOGO

Io ricordo…..Già, ricordare: ma non è enorme usare un tal verbo? Ricordare è un’impresa sovrumana, quasi innaturale in un’epoca che ha rimosso il senso stesso della memoria. L’estrazione di un ricordo dal fondo buio della miniera in cui giace richiede energia titanica ed abilità maieutica, l’unico modo per poter governare un’azione tanto simile al travaglio della gestazione e alle doglie del parto; vuol dire rivivere, fin nel più remoto recesso dei visceri, un istante ormai immutabile della propria vita. Ricordare è quindi la più dolorosa pratica chirurgica, perché non ti tocca nella carne ma imprime nello spirito stimmate di fuoco.
Se il ricordo evoca un momento lieto, si rimpiange che esso durò troppo poco e che ogni istante aggiunge ulteriori lontananze; se invece evoca un momento triste, ci addolora che esso durò fin troppo e che non sia ancora abbastanza lontano nel tempo. Ricordare è, forse, come voler temerariamente forzare il libro dell’Apocalisse, che deve rimanere serrato da sette sigilli perché – una volta aperto – dispensa in modo inscindibile l’apice della più dolce consolazione accanto all’abisso della più crudele disperazione.
Allora, io non ricordo? No, almeno nel senso che per farlo non ho bisogno di violare alcun geloso segreto né di compiere sforzi smisurati.
Perché se la nostra esistenza si espande nel continuum spazio-temporale come la pellicola d’un film, dove il fotogramma presente succede a quello passato che, pur già visto, non per questo cessa di esistere, e precede quello futuro che, ancorché inconoscibile, tuttavia già esiste. Se ricordare è il privilegio concesso ad alcuni uomini per poter continuare a convivere col tempo passato in un eterno presente. Se ricordare significa che le immagini e i suoni è come se fossero ormai tatuati sulla pelle, disciolti nel sangue e intrisi nell’anima. Se ricordare è dunque tutto questo, ebbene sì, posso confessare a viso aperto: io ricordo.

I.

Ricordo che il confortevole Eurostar fendeva come una lama l’hinterland di Milano e pensavo ancora con stupore alla convocazione per il famoso quiz televisivo Passaparola, giunta quando ormai non ci pensavo quasi più. La sera milanese intanto mi accoglieva tra le sue braccia fatte di tetri falansteri operai a quindici piani: immensi leviatani grigi dai mille occhi gialli, colossi resi ancora più spettrali dalle fioche luci dei lampioni, che ne lasciavano sospesa la metà superiore in un oscuro limbo.
La Milano operosa, efficiente e febbrile, in realtà mi aveva sempre procurato un senso di angoscia, al limite del panico, forse a causa dell’innaturale, evidente contraddizione tra la convulsa attività dei suoi abitanti ed il paesaggio industriale, algido e spietato. Patria ideale di tutti gli ossimori, Milano mi era sempre apparsa come una laboriosissima necropoli oppure come uno di quei cimiteri americani dove allegre comitive familiari si recano per apparecchiarsi un picnic tra le tombe.
Mentre il treno sembrava volare lieve sui binari, indugiavo in quei pensieri che normalmente la nostra razionalità ci impone di tenere imbrigliati, sicché – a metà tra l’attonito e il divertito – non potevo impedirmi di riflettere su un tema alquanto consumato: esiste o no un gran burattinaio che muove i fili degli esseri umani? Pensavo infatti che in quello stesso istante, magari su quello stesso treno, altre persone convocate per il quiz stavano forse meditando sul medesimo interrogativo. Uomini e donne – diversi per età, storia e provenienza – che stavano confluendo alla stessa meta per incrociare i loro destini e misurarsi in un gioco davanti a milioni di telespettatori. Ma, poi, era veramente solo un gioco? Ed è mai esistito il gioco puramente ludico, innocente, quando anche il più semplice svago di gruppo tra bambini risulta essere ombra e sublimazione delle sfide primordiali per la supremazia sul territorio o sulla comunità?
L’ultimo, tenue sobbalzo del treno omai giunto in stazione mi destò da quella sorta di trance ipnotica. Erano circa le diciannove. Scesi senza fretta e trovai la stazione pronta ad accogliermi con tutta la maestosa solennità del suo pesante stile littorio: la vita pulsava impetuosamente in quello che, più che uno scalo ferroviario, appariva il colossale tempio dedicato ad un dio ignoto e crudele. Mi avviai verso la metropolitana, ma prima di discendere nel mondo ipogeo mi soffermai ancora qualche istante sul limitare dell’immenso atrio per assaporare i frutti di quella insolita sera milanese. Era il dodici di febbraio, ma l’aria era mite e malinconica come in una di quelle estreme propaggini dell’estate che lambiscono i primi accenti dell’autunno; il cielo era drappeggiato come una morbida seta color indaco, orlata verso ponente dagli ultimi sospiri rossastri del tramonto. La luce fredda di alcune trepide stelle faceva già da reverente corona a lei, la splendente regina delle costellazioni, la più misteriosa: Orione, porta dell’eternità e custode dei segreti dell’universo.
Milano mi accoglieva con benevolenza e ciò mi sembrò un ottimo auspicio. Seguendo le indicazioni per la linea “verde” della metropolitana giunsi ben presto alla banchina – direzione Cascina Gobba – e fu lì che venni attratto da un cartello luminoso, assolutamente insignificante per chiunque tranne che per me. Era una banalissima segnalazione di servizio ad uso dei viaggiatori in transito nella direzione opposta e recitava semplicemente treno per Famagosta. Nella sua scarna essenzialità, il cartello si limitava ad annunciare umilmente l’arrivo del convoglio diretto verso il capolinea di viale Famagosta, nella lontana periferia meridionale di Milano: quartieri anonimi, senza storia, che potrebbero essere benissimo i sobborghi di qualunque metropoli.
Tuttavia quel segnale, peraltro confratello di tanti altri omologhi sparsi lungo la linea, celava messaggi criptici in attesa di qualcuno che sapesse decifrarli. In effetti i grandi agglomerati urbani – stratificati nei secoli sulle tracce vitali di milioni di esistenze – abbondano giocoforza di segni, di indizi, di passi perduti. Quanto al treno per Famagosta, almeno per me si presentavano dunque tre chiavi di lettura.
La prima era letterale e si basava sulla possibilità (o la speranza?) di poter realmente salire su un treno diretto alla “vera” Famagosta, sulla costa orientale dell’isola di Cipro. Un treno improbabile, fantastico, che partiva in sotterranea dal metrò milanese e poi correva sul mare azzurro verso lontani lidi asiatici. Un treno che poteva fare il paio con la nave Roma/Berlino o l’autobus Milano/New York: un lungo viaggio onirico e liberatorio, nel profondo dell’anima.
La seconda chiave era data dall’evocazione medianica di quel luogo non casuale, che un tempo fu una potente roccaforte veneziana ed oggi è soltanto un grigio e anonimo segnale di toponomastica urbana. Eppure, il semplice risuonare del nome dovrebbe ancora far rabbrividire di commozione. Nel torrido luglio del 1571 un’armata turca forte di ben 250.000 uomini cinse d’assedio la fortezza di Famagosta, difesa da poche centinaia di soldati della Serenissima, male armati e peggio nutriti. Dopo oltre un mese di strenua, incredibile, meravigliosa resistenza la piazza capitolò e Marcantonio Bragadin, l’eroico comandante, si arrese al generale turco Lala Mustafà. Il 15 agosto una vendicativa orgia di sangue si abbatté sui vinti, un’inenarrabile sequela di orrori da macelleria messicana che culminò col martirio di Bragadin, prima torturato e poi scorticato vivo. Da allora Famagosta è anche una dimensione dello spirito, emblema della resistenza sovrumana contro la sorte più soverchiante, quando la gloria appartiene solo ai vinti e tutto il disonore ai vincitori. Quella gloria che, in guisa di albero rovesciato, ha le radici in cielo e i frutti sulla terra.
La terza chiave era quella del paradosso o, se si vuole, dell’iper-realtà: la stazione Famagosta, in teoria, poteva anche non esistere oppure essere situata ad un’infinita distanza. Il viaggiatore che saliva a Crescenzago o a Loreto o a Porta Genova sapeva solo che al termine della linea c’era quella tale stazione e che per raggiungerla poteva occorrere mezzora come pure, in una dimensione parallela, addirittura degli anni. Molti dicevano di esserci stati: ma era poi vero? Ed era davvero possibile arrivarci in tempi commensurabili? E’ noto il paradosso di Kafka, il quale – ascoltando due persone che discutevano sulla necessità di recarsi in un paese vicino per sbrigare alcune commissioni – si meravigliava del fatto che esse dessero per scontato l’impiego di alcune decine di minuti, quando a suo avviso una vita intera poteva pure non bastare.
Al termine di queste considerazioni mi resi dunque conto che il treno per Famagosta era l’immagine metafisica della vita stessa e dell’avventura umana in generale. Un treno affollato sul quale si sale e si scende di continuo, senza una vera meta, perché quel che conta è solo il viaggio; un treno che comunque arriverà vuoto al capolinea, lontanissimo anni luce. Mi venne anche in mente una folgorante intuizione di Oscar Wilde, il quale osservò che il gran libro della vita si apre con un uomo ed una donna che passeggiano felici in un favoloso giardino e si chiude con i flagelli dell’Apocalisse: la valle dell’Eden e quella di Armageddon, pensai allora, devono essere unite da una lunghissima linea ferroviaria sotterranea……

II.

Ricordo che la mattina del 13 febbraio mi alzai di buon’ora, in quell’albergo in zona Crescenzago dalla singolare caratteristica: l’interno era garbato ed accogliente, lindo, persino con affettazione di eleganza (era pur sempre un “quattro stelle”) ma qualunque finestra inquadrava inesorabilmente differenti scorci del medesimo squallido panorama. Capannoni paleoindustriali in rovina, favelas annerite, palazzoni in stile sovietico appena umanizzati da qualche umile bucato appeso alle finestre e un cielo che già all’alba appariva disperatamente color cenere. Nella capitale degli ossimori, però, l’aria di quel mattino era ancora inopinatamente mite, anzi con qualche accento profumato che a tratti riusciva persino a forare il sudario dell’ossido di carbonio: altrove si sarebbe parlato di primavera precoce. Pensai che, in fondo, Milano mette in scena tutto l’anno la stessa decadente stagione, seppur turbata qua e là da occasionali furori, nella speranza che un giorno possa giungere a riscattarla un altro Herr professor von Aschenbach alla perenne ricerca di Tadzio.

III.

Lasciai l’albergo e mi diressi verso la vicina metropolitana, sempre della linea “verde”, in direzione Cascina Gobba. Un cartello luminoso, in alto, segnalava intanto l’arrivo del treno per Famagosta: mentre i rari viaggiatori osservavano cupi la banchina o il convoglio in transito, io solo guardavo verso il cielo abbozzando un’ombra di sorriso.
Dopo un breve viaggio attraverso una periferia incolore giunsi finalmente alla meta ultima, gli studi televisivi di Cologno Monzese. L’imponente costruzione era bassa, larga, anonima, per nulla diversa da un qualunque capannone industriale. All’ingresso una porta a vetri immetteva in uno spoglio androncino bianco, disabitato; senza targhe né indicazioni. Avvertii un lievissimo senso, quasi un brivido, di oppressione claustrofobica.
Una porta, anch’essa bianca, confusa con la parete, si apriva di tanto in tanto per ingoiare o espellere qualcuno. Ebbi allora la netta percezione di trovarmi al cospetto di un inopinato varco nello spazio-tempo o di una frattura interdimensionale. Poi, conscio che in quegli studi si registrava una delle trasmissioni televisive più seguite d’Italia, con una punta di timoroso stupore non potei evitare di lanciare un fugace pensiero alla “porta stretta” dell’evangelista Luca, quella dove molti si appressano ma che solo a pochi è dato di poter varcare.
Oltrepassai quella soglia, quasi con reverenza. Di là mi accolse un glabro corridoio, tanto lungo da sembrare infinito; bianco, angusto, dal soffitto basso e un po’ soffocante. Sui due lati si affacciavano un gran numero di porte bianche, alcune aperte, altre chiuse: era la zona camerini, trucco e sartoria. L’ambiente era deserto. Ad una figura femminile materializzatasi all’improvviso domandai della redazione; un gesto muto e stanco mi indicò una piccola scala laterale. Salii, appena turbato da una sottile vertigine.

IV.

La stanza era già di per sé stessa assai piccola ma, dovendo contenere una decina di persone più uno scarno arredo, risultava affollata come un autobus nell’ora di punta. Io ero il concorrente “di riserva”, poi c’erano sei “sfidanti”, il temuto campione in carica e tre ragazze della redazione. Era in corso il briefing propedeutico alla trasmissione e con molta discrezione accennai un saluto agli astanti, poi mi sedetti ad ascoltare.
Ancora non lo sapevo, ma le tre ragazze sarebbero state i nostri angeli custodi per tutto il tempo necessario prima, durante e dopo le registrazioni. Le ricordo, oggi, con affetto e nostalgia. Erano graziose, garbate e – a loro modo – molto affascinanti.
Laura aveva la pelle chiara e i capelli lisci color castano scuro; era molto paziente, riservata, con un sorriso venato da un’ombra di malinconia. Era però dotata di una magnetica quanto inconsapevole forza di attrazione che quasi stordiva: una pantera dagli occhi di miele, un enigma forse indecifrabile. Guardarla negli occhi dava un senso di vertigine, era come sbirciare nelle profondità di un oceano.
Francesca aveva un aspetto algido da intellettuale. Alta, delicata, flessuosa come una gazzella, dalla pelle bianchissima che risaltava sotto il nero dei capelli lisci. Dietro gli occhiali cercavano di nascondersi due occhi perdutamente azzurri ed un animo sensibilissimo, timoroso di farsi scoprire per tale: seppur molto presente a sé stessa, si intuiva però che la sua maggior paura era quella di lasciarsi andare allo scorrere delle emozioni.
Infine Ylenia, dal viso morbido e luminoso incorniciato da lunghi capelli neri. Dolce e struggente; appassionata e romantica. Forse un’eroina d’altri tempi: ricca di entusiasti slanci, ma con un appena percettibile accento di disilluso fatalismo. In realtà, un tenero airone ancora in attesa di spiccare il volo verso le altezze iperuranie a cui anelava.

V.

Nel frattempo avevo molto fraternizzato con i vari concorrenti, non senza notare – con un certo divertimento – che tutti sembravamo degli stereotipi selezionati da un istituto di ricerche demoscopiche: c’era quindi il giovane studente, la brava massaia, l’anziana pensionata, l’affermato professionista, la donna in carriera, l’impiegato statale, il brillante campione. Ricordo in particolare, con immenso affetto, la Nilla, una argentea signora genovese sulla settantina – vagamente somigliante a mia madre – che nei test di allenamento aveva ottenuto risultati formidabili. Era allegra, entusiasta, curiosa, ma di quella curiosità primordiale di cui sono capaci solo i bambini: guardava ogni cosa con gli occhi sgranati ed un sorriso stupito, perché si affacciava finalmente in quel mondo rutilante che aveva sempre visto solo al di qua dello schermo. E tutto era una continua scoperta, una rivelazione, una sorpresa, un dono del destino, foss’anche il solo guardare l’incredibile groviglio di cavi elettrici che circondavano lo studio, tra un “ooh!” ed un “ma che bello!”. Ricordo pure che durante il pranzo alla mensa aziendale la Nilla aveva voluto che ognuno di noi le scrivesse un piccolo pensiero sul taccuino, affinché il ricordo di quelle ore gradevoli e dei compagni di avventura le potesse domani tenere compagnia in modo più tangibile, testimoniandole in qualunque momento che no, non aveva sognato. Ero sinceramente commosso, anche perché inconsapevolmente Nilla aveva offerto a me – animo scettico e malinconico travestito da brillante uomo di mondo – un privilegio unico: poter godere pienamente, attraverso i suoi delicati stupori, le luci e i colori di quel mondo surreale.

VI.

E venne infine l’ora di andare in onda. Il gioco televisivo prevedeva che in apertura due aspiranti concorrenti si sfidassero tra loro, in modo che il vincitore divenisse lo sfidante del campione in carica, ciò significava che – prima della trasmissione – si doveva sorteggiare una coppia. Mentre la classica monetina scintillava nell’aria sperai con tutto il cuore che il mio avversario nell’esordio non fosse proprio la Nilla, ma purtroppo il gran burattinaio dei destini decise diversamente.
Entrammo nello studio: tutti pronti; tre, due, uno, si parte. Mentre l’orchestrina suonava la sigla del programma notai che l’ambiente era coloratissimo e gradevole, ma con sommo stupore mi accorsi pure che i fondali e le scenografie erano in realtà di materiale assai povero e alquanto sciupato, dettagli che però il generale scintillio ombreggiava ed il video non percepiva. Una esemplare metafora del tanto idealizzato “mondo dello spettacolo”.
Ecco, ora tocca a me. La telecamera mi inquadra, il conduttore Gerry mi presenta al pubblico e ricevo un cordiale applauso: che strano, non provo la benché minima emozione, ma solo una piacevole euforia condita da una sensazione – a me finora del tutto sconosciuta – come di invulnerabilità. La sfida a due è avvincente e incerta, ma alla fine il punteggio è a mio favore: sì, è andata, sono proprio io lo sfidante, ma la calorosa e tangibile simpatia raccolta da Nilla mi rammenta ancora una volta che – come a Famagosta – spesso la vera gloria spetta a chi perde.
Il gioco ora scorre via leggero, allegro. Si scherza, si scambiano battute e le risposte mi vengono con facilità. Sembra proprio un divertimento tra amici, come se non ci vedesse nessuno; quanto alle telecamere, per me è come se non esistessero. La musica, intanto, è avvolgente, inebriante, ricca di sonorità: se appena chiudo gli occhi sento salire dal profondo una sorta di ebbrezza vitale, quel senso di stordimento appagante che può cogliere, talvolta, solo chi ha lungamente e intensamente vissuto. E mentre mi sembra di muovermi come in apnea, in un acquario, in realtà riesco ad essere brillante e a raccogliere applausi. Avverto pure un piacevole clima di simpatia, anche perché il campione in carica è, sì, molto bravo, ma è un giovanotto un po’ troppo schivo e impacciato.
La sfida finale, quella seguita da otto e anche nove milioni di spettatori, mi cade addosso quasi all’improvviso: il tempo ha subito una forte compressione, almeno nella mia mente, perché è già trascorsa un’ora mentre io giurerei che si sia trattato di pochi minuti. Ora, comunque, sono a tu per tu col campione, senza sconti. Sono sereno, senza emozioni, tranne quell’ineffabile e immotivata sensazione di potenza. La sfida si accende gagliarda, una domanda dopo l’altra; il conduttore percepisce il momento spettacolare e ci incalza, per rendere più entusiasmante la volata finale. Ora il campione è in affanno, perde lucidità, mentre io sono sempre concentrato ma senza particolari tensioni. E’ l’ultima domanda, rispondo e solo allora capisco che ho vinto: diciotto punti su ventuno, un risultato di assoluto prestigio. Sono il nuovo campione: raggiante, saluto tutti tra gli applausi. La sigla finale va a tutto volume. Tre, due, uno, la puntata è finita.
Francesca, Laura e Ylenia mi vengono incontro festose e io sono un po’ frastornato, quasi intimidito da tanto entusiasmo. Corro allora dietro le quinte e trovo ancora la Nilla. L’abbraccio, lei si commuove: è tanto contenta per me, mi dice che è onorata di aver perso con quello che poi è diventato il nuovo campione e che comunque l’avventura è andata ben oltre quello che aveva sognato. Mi dice pure che conserverà il mio autografo tra le sue cose più care e questo mi sconvolge; a stento trattengo una secrezione salina che, un giorno, finalmente ammetterò essersi trattato di una lacrima, forse anche più di una.
Dopo dieci minuti ancora non mi sono ripreso dallo choc, tuttavia è già ora di registrare la puntata successiva. Stesso copione spumeggiante e mi ritrovo alla terza trasmissione. Vinco ancora ed è un vero trionfo nello studio: tre vittorie su tre, anche se per il pubblico a casa saranno diluite in una puntata al giorno. Adesso sono veramente spossato: come un automa vado a cambiarmi d’abito e faccio in tempo a prendere il pullman aziendale insieme alle ragazze della redazione: anche loro sono stanchissime, ma penso che siano pure sature di quella vita che si svolge ogni giorno in un bizzarro capannone tecnologico fuori dal tempo secolare e vagamente claustrofobico, a metà strada fra Disneyland e Alcatraz. E’ anche per questo che provo per loro un indicibile affetto.
Ecco, arriviamo a Cascina Gobba: saliamo sul treno per Famagosta, poi ognuno per la sua strada. Domattina, mercoledì, ritorno a casa, ma lunedì prossimo sarò nuovamente qui per riprendere il discorso.

VII.

Il treno attraversava a mo’ di meteora una pianura padana oppressa dal peso di un cielo troppo basso. Rimuginavo ancora sulla folgorante giornata precedente e, più che un sogno, avevo l’impressione di aver vissuto la vita di un altro. Comunque sia, pensavo, ero certamente io e non la Nilla ad essere andato ben oltre ogni aspettativa. Avendo tempo in abbondanza, approfittavo pure del lungo viaggio per riassaporare l’intera esperienza in ogni dettaglio, indugiandovi a lungo e immagazzinando nella memoria ciò che altrimenti sarebbe stato destinato all’inesorabile oblio. Del resto, la velocità degli eventi mi aveva impedito – di fatto – di cogliere quelle sfumature e quei mezzi toni che invece sono il sale dell’umano divenire.
Ripensavo anche ai vari personaggi dello spettacolo che, di volta in volta, avevano fatto parte della mia squadra o del contorno, e mi convinsi che accanto ad alcuni inutili androidi (Petrolini li avrebbe bollati, al pari del suo Gastone, come esseri “vuoti, senza orrore di sé stessi”) c’erano anche persone dai sentimenti umani. Due donne molto belle, in particolare, mi avevano impressionato. Una era stata Miss Italia diversi anni prima ed aveva fatto poi molto cinema e televisione, ma sempre in dosi – diciamo così – omeopatiche. A “microfoni spenti” mi ero complimentato con lei per la luminosa bellezza e la naturale eleganza, ma soprattutto perché aveva sempre offerto prestazioni gradevolissime e senza cadute di stile, ossia senza impantanarsi nel triviale. Nel ringraziarmi di cuore, lei mi rispose pure con una punta di malinconia che tali doti – ancorché apprezzate dal pubblico – evidentemente non lo erano abbastanza da parte di chi conta nello spettacolo, dal che ne ricavai che la sua scarsa propensione a pesanti compromessi personali doveva averne alquanto frenato la carriera. Certamente non era l’unica ad essere riluttante dinanzi a certi tipi di scorciatoie professionali, ma apprezzai maggiormente il fatto che lo ammettesse nella confidenza privata ad uno sconosciuto e non se ne facesse vanto nel corso d’una impietosa autopsia dei sentimenti, davanti ai milioni di guardoni del talk show di turno.
L’altra “star” che ricordavo con piacere era una nota conduttrice televisiva, ancorché sempre affiancata a qualche altro personaggio di maggior spicco: alta, flessuosa, lunghi capelli neri corvini, fisico da top model e occhi scuri d’una luce intensissima. Anche in questo caso, senza clamori, avevo voluto porgere un complimento come fosse un serto di rose e volli fare più o meno questo ragionamento: dire “bellissima” ad una donna è fin troppo banale e oltremodo abusato, ma c’è una lode che – a mio avviso – può tributarsi solo in presenza di una venustà superiore e che proprio per questo può essere dispensata solo con estrema parsimonia, nonostante che come vocabolo in sé sia anch’esso inflazionato. Ciò premesso, continuai, “mi permetta di dirle una sola parola: affascinante”. I suoi occhi ebbero un lampo di piacere assolutamente indimenticabile: posando delicatamente la mano destra sulla mia, mi sussurrò due volte un “grazie” che esprimeva una gratitudine veramente profonda. Forse peccai di presunzione, ma ebbi la nettissima sensazione che un tributo così semplice e spontaneo – lei abituata alla babele di falsi salamelecchi che condisce i rapporti tra gente di spettacolo – era come se lo anelasse da anni.
Quanto al conduttore Gerry avevo avuto modo di constatare – pur nelle poche battute scambiate al di fuori dell’ufficialità – che era un personaggio “vero”, simpatico e di gran classe, anche nel privato. Tuttavia, poiché la lunga esperienza del mondo credo mi abbia conferito una particolare sensibilità nel cogliere l’essenza delle persone, mi parve di percepire in lui anche un sottilissimo ed inconfessabile lato dolente, una sorta di fatica del vivere o di tedium vitae. In altre parole, era come se si interrogasse di continuo se tanto lavoro – ancorché appagante quanto a successo e denaro – valesse il prezzo di enormi sacrifici.
Il treno intanto correva instancabile e monotono, allontanandosi sempre più. Tuttavia, sebbene fosse un tecnologico Eurostar avvertivo in sottofondo un sospiro, un ansito da locomotiva a vapore. Se durante la trasmissione il tempo sembrava come compresso, ora stava forse subendo una dilatazione ed un rallentamento, per questo gemeva sommessamente: in tal modo, secondo il paradosso di Kafka, per arrivare a Roma potevano anche volerci degli anni. Sempre che il treno fosse veramente diretto a Roma…….

VIII.

“E fu sera, e fu mattina”: in questo modo tanto sintetico quanto sublime la Bibbia risolse di descrivere gli intervalli della Creazione, quelle notti in cui il silenzio inseriva una sordina nel fragore meridiano dell’opera divina. Quest’immagine (per carità, soltanto letteraria) mi venne in mente allorché mi resi conto di trovarmi ancora a bordo di un treno, solo che stavolta stavo ritornando a Milano. Ricordavo ben poco dei cinque giorni trascorsi a casa e quindi mi stupivo di ritrovarmi ancora in viaggio, su un treno dal quale mi sembrava di non essere mai sceso: e fu sera, dunque, e fu mattina.
In realtà era pomeriggio inoltrato e il sole, basso sull’orizzonte, spandeva la sua irripetibile doratura barocca sul verde ondulato della Campagna Romana. Era un momento d’una bellezza tale da causare quasi un malessere fisico: capivo allora il grande incisore ottocentesco Bartolomeo Pinelli, il quale da Roma si muoveva di rado e malvolentieri, tanto che quando varcava la porta cittadina veniva colto da un feroce mal di testa che cessava solo al suo rientro.
Io non avevo una tale emicrania, tuttavia ero incoerentemente sospeso tra il desiderio di arrivare e quello, opposto, di non partire. Ma mentre tentavo di risolvere le mie contraddizioni mediante oziose riflessioni, ancora una volta il treno gettava gli ormeggi alla banchina della Stazione Centrale di Milano ed ancora una volta erano circa le diciannove.
Quella sera non avevo fretta di arrivare all’albergo, dove ormai sapevo che avrei finito col passare la serata facendo lo zapping col telecomando. Sedetti allora su una panchina accanto al binario, osservando quietamente il traffico sferragliante di convogli in arrivo dal Dovunque ed in partenza verso l’Altrove. Mi tornava così in mente il dilemma che mi aveva accompagnato per tutto il viaggio: partire o restare? Chi parte si dirige verso il proprio destino, anzi gli corre incontro, e nel volgere di qualche ora tutto è definito, compiuto, irreversibile. Chi resta attende invece che il destino gli venga incontro e nel volgere degli anni tutto è ancora da definire, da compiere, da mutare.
Sì, forse restare è meglio che partire. L’attesa è privilegio, è l’arte paziente e raffinata del probabile, quando tutto può ancora accadere. La partenza è il dovere, è il mestiere irrinunciabile della certezza, è quando tutto è già accaduto. Allora sì, è meglio restare, stando seduti sulla panchina di marmo d’una stazione e guardando l’erba verde che cresce fino a soffocare i binari.
All’improvviso mi sentii forte, sereno ed anche ben determinato nei confronti della nuova avventura che andavo ad affrontare. Allo stesso tempo, però, ebbi chiarissimo un inspiegabile presagio, ossia che a quel secondo viaggio non ne sarebbe seguito un terzo: ciò mi dispiacque ma disciplinatamente lo accettai, come qualcosa che sentivo essere del tutto inevitabile.

IX.

L’alba di lunedì 19 febbraio era fredda, a Crescenzago. I palazzi sembravano d’acciaio, viale Palmanova sembrava d’acciaio e d’acciaio era la strada ferrata, mentre i volti rocciosi dei passanti apparivano tanto simili agli enigmatici moai dell’Isola di Pasqua. Da qualche parte, sopra la mia testa, doveva esserci un cielo.
Arrivai puntuale agli studi televisivi e ritrovai le mie preziose amiche, che salutai con emozione. Mi presentarono ai concorrenti del giorno come il temibile campione ed ancora una volta constatai che il destino aveva radunato nel medesimo luogo dei perfetti archetipi: il laureato disoccupato, la madre di famiglia, ecc. Erano tutti molto simpatici, perfino ciarlieri: con apparente noncuranza li scrutai a lungo, per intuirne le potenzialità, e ne trassi indicazioni confortanti. Oziosamente, andavo con lo sguardo da un viso all’altro, poi lo vidi, all’improvviso: con sgomento capii immediatamente che era lui il motivo del mio presagio.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” scrisse Cesare Pavese; per me la fine del momento magico aveva il viso di Lorenzo. Era, questi, il concorrente di riserva di quel giorno, il che significava che l’indomani sarebbe stato uno dei due aspiranti sfidanti nella prima puntata. Io avevo dinanzi a me ancora da disputare la prima partita e non era affatto detto che potessi giungere a superarle tutte e tre, ripetendo l’impresa precedente, inoltre non era nemmeno detto che Lorenzo riuscisse poi a superare la sua prova e a divenire lo sfidante. Ma nonostante tutti questi “se”, avevo ormai la certezza incrollabile che io avrei vinto di nuovo tre puntate di seguito e che l’indomani Lorenzo mi avrebbe sbaragliato. Si badi, però, che io non avevo avuto alcun cedimento emotivo, né ero caduto in preda ad un fenomeno di autosuggestione: semplicemente, avevo avuto la visione in anteprima di un evento futuro assolutamente non modificabile.
Lorenzo aveva un gran casco di capelli ricci, un paio di baffoni e un’espressione da sfinge, sorretta pure da una naturale piega delle labbra che ricordava tanto il sorriso della Gioconda. Veniva da Sorrento ed era medico pediatra; aveva una quarantina d’anni ed una riservatezza quasi al limite del mutismo. Ebbi poi modo di conoscerlo un po’ meglio e confermo che era un vero gentiluomo, garbato e morbidamente arguto, ancorché incapace di provare emozioni forti, tuttavia da lui promanava un fluido di gelo tombale che mi faceva rabbrividire nel profondo. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
E si fa l’ora di andare in trasmissione. Tre, due, uno, via con la sigla. Allegria, battute, musica ipnotizzante, una performance brillante. Gerry è visibilmente soddisfatto, perché il concorrente troppo ingessato in genere fa perdere qualche punto di audience: io sono forse un po’ troppo sopra le righe, ma penso che in fondo a lui non dispiaccia più di tanto.
Appena il tempo di riprendere fiato e si parte di nuovo. Anche qui stesso copione, ma ecco il colpo di scena: nella manche finale sono meno lucido del solito e finisco alla pari con la mia avversaria, alla quale però manca ancora una risposta. La domanda è di una semplicità disarmante e se lei risponde bene, vince, altrimenti vinco io perché ho un maggior tempo residuo. Gerry formula il quesito e tutti sono convinti che lei risponda agevolmente; è impossibile sbagliare. Sembro ormai fuori gioco ma nei secondi che precedono la risposta io sono invece del tutto tranquillo: so già che lei sbaglierà e che io vincerò di nuovo, perché spetta solo a Lorenzo – anche se lui non lo sa – il compito di consegnarmi domani il foglio di congedo. E’ tutto vero: la signora non sa rispondere, lancia un nome a caso e perde. Gerry è altamente meravigliato, così come il pubblico in studio; io sorrido rilassato perché era già tutto scritto sul libro del destino.
La giostra riparte e compie un altro giro: terza puntata. Un’altra donna – molto preparata, peraltro – mi contende il passo, ma ormai so di essere invincibile, almeno per questa sera. Alla fine, con diciannove risposte su ventuno è un’apoteosi, un traguardo che pochissimi hanno mai toccato nel corso del lungo ciclo di trasmissioni. Le amiche della redazione sono entusiaste perfino più di me. Euforia, complimenti, rituale celebrazione del campione: ora assaporo con voluttà il trionfo perché ormai so di essere al tramonto.
Spente le luci, tutti a casa; domani si ricomincia. Giunto a Cascina Gobba, sulla banchina della metro, stasera guardo con un occhio diverso e più malinconico la tabella luminosa del “treno per Famagosta”. Mi sento vecchissimo, come oppresso dal peso di molti secoli. Del resto ho vissuto in pochi giorni un’esperienza vorticosa che un normale essere umano dovrebbe, forse, poter metabo-lizzare nell’arco di mesi.
In albergo ci ritroviamo fra concorrenti e, per contrastare l’uggia d’una serata nella tetra periferia milanese, decidiamo di andare a cena insieme. Siamo in quattro: io, il concorrente della prima puntata, la signora della seconda (quella che mi ha “regalato” la vittoria) e Lorenzo; sì, proprio lui. La compagnia è alquanto brillante, a parte Lorenzo che pronuncia pochissime parole. La signora e Lorenzo sono seduti di fronte a me e all’altro commensale; si parla del più e del meno, ma anche di fatti privati. E’ così che ancora una volta posso constatare come il destino si faccia continue beffe di tutti noi, anche feroci.
Accade infatti che, nel corso della conversazione, la signora ci rivela il suo calvario – durato anni e anni – nel disperato quanto vano tentativo di avere figli. Lorenzo, che le siede accanto, col minimo dispendio di parole confessa invece che lui i figli non li vuole in alcun modo, ed anzi si è sposato ponendo alla moglie, quale pregiudiziale, proprio questa preclusione alla prole. Con molto garbo gli obietto che ciò mi sembra alquanto contraddittorio e paradossale, dato che la sua professione è addirittura quella del medico pediatra, ma lui risponde che in realtà ama molto i bambini, solo che non intende averne di propri, un po’ per la sfiducia nel futuro ed un po’ per gelosia della propria libertà. Sono sorpreso e sconvolto. Il destino, per un gioco crudele, ha posto l’uno accanto all’altro due personaggi antitetici e dolorosi che potrebbero essere usciti da un dramma di Verga o di Pirandello, ma poi mi viene il dubbio che non siano loro ad essere sortiti dalla tragedia ma che sia io ad esservi entrato come inatteso comprimario.
Durante le ciarle, scherzosamente, ribadisco più volte la convinzione che l’indomani Lorenzo mi avrebbe dato il benservito, ma mentre gli altri la prendono in burletta lui mi guarda in silenzio con la sua impenetrabile espressione.

X.

La notte è trascorsa praticamente insonne e senza riposo. La scorsa settimana ho potuto smaltire in viaggio le scorie dell’enorme stress emotivo che si scatena a telecamere spente, ma stavolta ho dinanzi a me la prospettiva di un lungo giorno televisivo. Ho preso qualche blando sedativo, ricavandone appena un’oretta di sollievo. Per tutta la notte ho avuto per compagni di veglia i fantasmi della mente, che hanno riempito di spilli il mio letto, ed un fantasma vero che è rimasto seduto in silenzio ai piedi del letto, ammantato di nero, con un gran cappuccio che nascondeva il volto.
Stamani ho gli occhi vetrificati e nella testa un nido di vespe arrabbiate, ma non per questo posso chiedere di rimandare la registrazione. Ecco nuovamente il dubbio della stazione: partire o restare? Gettare la spugna subito o aspettare che la gara proclami il suo verdetto? Il dubbio è più attuale che mai, ma infine penso che sia doveroso dare comunque battaglia: se devo cadere, voglio farlo in piedi e con l’onore delle armi. Poi, con un sorriso, rammento a me stesso che Woody Allen – in un frangente simile – in fondo avrebbe commentato che “l’importante è che la morte ci trovi ancora vivi”.

XI.

La mattina è dorata da un tiepido sole quasi primaverile ed il cielo è d’un azzurro scialbo ma vellutato, tuttavia questo lieve presagio ha un che di ineffabile, di crepuscolare. Lontano, appena percettibile, sembra perfino di poter cogliere il fruscìo della sabbia che, inesorabilmente, riempie il ventre d’una invisibile clessidra. La vita è molte cose, ma soprattutto è una lunga sequenza di addii.
Agli studi di Cologno Monzese trovo una nuova schiera di concorrenti, ma non riesco a memorizzarne nessuno perché sono troppo stanco e distratto; più esattamente è come se qui fosse presente un mio ologramma mentre il corpo si trova altrove. I miei tre angeli mi accolgono col solito entusiasmo, ma mentre Francesca e Laura tentano di mantenersi più “professionali” c’è invece Ylenia che fa un tifo da stadio. E’ curioso, ma solo oggi mi accorgo che l’acronimo dato dalle loro iniziali (FLY) in inglese significa “volare” e devo dire che ciò si è rivelato meravigliosamente profetico.
Fungendo da guida al gruppo di neofiti nei meandri degli studios, mentre ci rechiamo alla mensa aziendale, riesco ancora a fare dello spirito, forse perché l’ironia resta per me uno dei maggiori e irrinunciabili piaceri della vita. Butto lì, quindi, una battuta dal sapore un po’ erudito, commentando che in quei tortuosi angiporti sono un po’ il loro psicopompo, ossia quell’entità che nella mitologia greca accompagnava le anime nel cammino oltretombale. Mi sorprende il constatare come l’immediatezza d’una battuta possa talvolta attingere all’inconscio più profondo: infine, qui tutti noi siamo tante “signora Nilla”, ossia anime sperdute in un mondo onirico dove partecipiamo da semplici figuranti e che forse intimorisce più di quanto affascina.
Ma la sabbia nella clessidra ora scende più veloce e l’ampolla superiore è quasi vuota.

XII.

Tre, due, uno; via con la sigla. Gerry mi accoglie cordialmente come un vecchio amico e raccolgo la mia parte di popolarità. Lorenzo incrocia i guantoni col suo avversario e, ancorché senza brillare, supera il turno: la mia certezza al riguardo era granitica. Giochi, musica, allegria. Ora tutto ha un sapore diverso, più malinconico, ma forse per questo mi è più dolce e più caro.
Ora io e Lorenzo siamo alla sfida finale. Io ho nella mente come una lavagna nera su cui, con penosa difficoltà, riesco a scrivere col gesso bianco le parole delle risposte. Lorenzo è un motore diesel, lento ma inesorabile. Io alterno colpi da teatro a performance imbarazzanti; Lorenzo è impassibile e distaccato, come uno che si trova a passare per caso da queste parti.
Ma ad un certo punto, incredibilmente, ho in mano il pallino della partita. Lorenzo ha dato tutto quel po’ che poteva dare, io posso rovesciare lo svantaggio. Devo rispondere – iniziando con la lettera “O” – alla domanda “Il lavoro che il dentista fa sulla carie”. Dopo aver rimandato più volte la risposta mi decido infine a dire “odontoiatrico” – puntando sul più attinente aggettivo qualificativo del sostantivo “lavoro” – ma purtroppo l’opzione esatta è “otturazione”. Gerry è sinceramente sorpreso e dispiaciuto della mia capitolazione – anche se credo non abbia sempre gradito una certa mia esuberanza – e mi sembra perfino imbarazzato nel presentare Lorenzo come il nuovo campione. Sigla a tutto volume; tre, due, uno, stop. Laura e Francesca sono veramente costernate, mentre Ylenia, quasi in lacrime, mi dice che è addolorata come se fosse stata abbandonata dal fidanzato. Indimenticabile, struggente Ylenia.
L’ultimo, pesantissimo granellino di sabbia è caduto con esasperata lentezza nell’ampolla inferiore della clessidra.

EPILOGO

Lorenzo durò l’espace d’un matin, quasi subito sbaragliato da un concorrente che poi vinse per più di trenta puntate di seguito. Io ho continuato lungamente a stupirmi per la quantità di gente – a me sconosciuta – che riusciva a riconoscermi (a Roma!) in mezzo alla folla per strada o su un vagone della metropolitana. Ovunque, ammirazione per la simpatia e – bontà loro – per la bravura: sono ancor oggi molto felice e devo dedurre che sette magiche puntate erano evidentemente il tempo ideale che gli dei mi avevano concesso in dono.
Ma il maggior privilegio è quello della memoria, perché tutto ciò non fa parte del passato ma di quell’eterno presente in cui a taluno è concessa l’esclusiva di poter spaziare a piacimento finché avrà vita.

IMPROMPTU

L’ometto dal pastrano stanco e leggero attendeva l’autobus diretto alla stazione, confuso tra la folla della metropoli. Nel volgere di mezzora era già in viaggio sul treno per il mare, col viso impassibile rivolto verso il finestrino. Il viaggio fu di breve durata ma lui trovò comunque gratificante constatare la scarsità di passeggeri. La stazione dava sul lungomare; con passo deciso si diresse verso uno dei sentieri che conducevano alla spiaggia. Quando giunse al cospetto del mare sentì finalmente sciogliersi la tensione che lo aveva attanagliato sino ad allora e trasformarsi in un sottile e piacevole batticuore.
Il litorale si estendeva per qualche chilometro, piatto, formando una insenatura appena accennata. Il livido cielo invernale era drappeggiato come un sudario sul mare in tempesta, color terra. L’ometto si guardò più volte intorno, attraverso gli occhiali cerchiati di metallo, per accertarsi di essere completamente solo, poi trasse fuori da una tasca interna del pastrano la bacchetta da direttore d’orchestra. La prese con la mano destra e ne appoggiò delicatamente la punta sul palmo della sinistra. Chiuse gli occhi e si concentrò brevemente; quando li riaprì alzò di scatto le braccia puntando la bacchetta verso il cielo. Per qualche attimo il mare sconvolto rimase sospeso e immobile come in una fotografia, in un silenzio da settimo sigillo.
L’ometto iniziò, seguendo uno spartito che aveva ben impresso nella mente. Le onde del mare obbedivano fedelmente al ritmo imposto loro dalla bacchetta; la direzione scorreva elegantemente dalle bonacce dei pianissimo ai cavalloni scintillanti degli allegro. Le mani sapienti evocavano dai flutti paesaggi e figure d’una bellezza esaltante: grandi praterie d’erba mobile; colline e montagne ricche di anfratti luminosi; e poi ancora giochi di fontane in giardini incantati, animali mitologici, moschee d’oriente, sempre in sintonia con quella musica inaudibile. Nel fortissimo finale s’innalzò un’onda di oltre quaranta metri, che si sgonfiò istantaneamente appena l’ometto in grigio – ormai esausto e congestionato – fece ricadere le braccia lungo i fianchi.
Il mare era ora tornato corrucciato com’era al principio. L’ometto ripose stancamente la bacchetta nel pastrano e si avviò verso la stazione. Guardando attraverso il finestrino osservò impassibile il mare che si allontanava rapidamente. Quando scese dal treno si rialzò il bavero e frettolosamente si confuse di nuovo tra la folla lattiginosa.

INVERNO

Nel glauco e burbero pomeriggio invernale le vetrine di via Condotti scintillano di merci preziose ma sono quasi soffocate dal popolo degli acquisti, che ondeggia festante e a ranghi serrati come alla processione d’un santo patrono.
Seduto in un’ansa del fiume di pietra il vecchio violinista ambulante sta suonando da ore la stessa malinconica nenia. D’un tratto, una lieve folata d’aria più gelida lo induce a volgere lo sguardo al cielo. Turbato, smette di suonare e si allontana frettolosamente, rasentando i muri, lanciando a tratti verso quel cielo uno sguardo di terrore. Il popolo continua a guardare le vetrine, con occhi bovini.

L’ANFITRIONE

Ad onta dell’insegna maestosa e fiorita, il “Gran Caffè del Belvedere” era una sirena che incantava soltanto a metà. Il “gran caffè” era infatti un modesto chiosco-bar all’aperto, coi tavolini tondi in metallo stile anni Sessanta, dove si propinava merce dozzinale, ma il “belvedere” era davvero superbo: la piccola terrazza, arroccata quasi in cima al colle del Gianicolo, imbandiva alla vista del viandante una panorama mozzafiato sulla Roma barocca, i cui tetti rossi occhieggiavano tra l’ocra dei palazzi come i chicchi d’un melograno semiaperto.
L’estate stava ormai declinando verso quell’autunno dorato e rimembrante con cui l’Urbe sa ricompensare i suoi adoratori ma, a parte me, solo due o tre avventori erano seduti ai tavolini, alle prese con un’improbabile bevanda. Io invece stavo assaporando con voluttà il pomeriggio romano e sulle prime non mi accorsi dello sconosciuto che era andato a sedersi poco più in là. Fu solo quando cominciò ad apparecchiare il tavolo che cominciai ad osservarlo con attenzione.
L’uomo dall’aspetto macilento avrà avuto circa quarant’anni ma aveva già i capelli quasi bianchi. Vestiva molto dimessamente, con abiti stropicciati e fuori moda, di fattura economica, ma estremamente dignitosi; portava persino una sorta di cravattino dal colore ormai indefinibile. Nonostante la palese condizione di scarsa fortuna, si capiva però che l’uomo doveva aver conosciuto epoche e compagnie assai migliori, anche perché mostrava una compostezza di movimenti di taglio aristocratico.
Appena si accorse del nuovo arrivato, il quale era evidentemente un frequentatore abituale del bar, lo stanco cameriere provò ad apostrofarlo senza troppa convinzione, dicendo “Don Aristide, la prego….”, ma subito s’interruppe e con un gesto rassegnato riprese le sue pigre faccende. Aristide, tuttavia, non si era minimamente accorto del cameriere perché era già assorto in quello che, pensai, per lui doveva essere un rito abituale, circadiano. Da una sporta consunta cominciò quindi ad estrarre con calma diversi cartocci e vasetti che poi disponeva sul tavolino secondo un ordine consolidato dalla prassi. Quando ebbe finito ammirò per qualche istante, con compiacimento, la dovizia di materiale sciorinata dinanzi a lui, poi proseguì.
Aristide cavò dalla sporta un involto un po’ più grande, lo aprì ed apparve un pane di forma allungata, che a prima vista doveva pesare sui cinquecento grammi. Estrasse poi un temperino dalla lama lucente e con molta calma incise il pane lungo tutto un fianco, lo aprì e dispose le due metà una accanto all’altra. Prese un panetto di burro e, sempre col temperino, prese a spalmarlo accuratamente sulla metà inferiore dello sfilatino, senza alcuna fretta. Dopo aver lungamente rifinito la sua opera, aprì uno dei cartocci e cominciò – con una delicatezza quasi estenuante – a disporre delle fette di prosciutto sul letto di burro, indi – aprendo via via i vari involucri – continuò frapponendo foglie di lattuga a strati di salame, tonno, coppa romana, maionese, prosciutto cotto, sottaceti, mortadella, ed infine un trionfo di insalata russa.
Aristide era visibilmente commosso. Osservò con cura, da ogni angolazione, il risultato delle sue fatiche (vi aveva impiegato più di mezzora) e poi lo ricoprì con la metà superiore dello sfilatino, anch’essa preventivamente imburrata con devozione. Prese quindi un foglio di alluminio per alimenti e vi avvolse per metà quel monumentale pane imbottito, in modo che l’altra restasse comunque in bella vista. Dalla solita sporta tirò fuori un lucido vassoio che sembrava d’argento, vi collocò sopra un centrino di carta che imitava il pizzo ricamato e poi vi adagiò la superba colazione, con l’amorevolezza di chi maneggia un tenero infante o accarezza l’amante più bramata.
A questo punto Aristide si fermò e rimase a lungo, immobile e silenzioso, nella estatica contemplazione del suo capolavoro. Dopo circa un quarto d’ora finalmente si mosse e, con delicatezza, impugnò con entrambe le mani quell’incredibile oggetto. Era visibilmente eccitato e l’acquolina già gli solleticava il palato. Lo sguardo era ipercosciente e febbrile, lo stesso che può accomunare un genio e un folle, mentre un ineffabile sorriso gli illuminava il volto: non dimenticherò mai il modo tenero e struggente con cui guardò per l’ultima volta il panino durante l’avvicinamento alla bocca spalancata.
Ormai ero come rapito da quella scena surreale ed anch’io – immedesimato, con le labbra dischiuse – aspettavo il momento per addentare quella delizia. Ma nel momento supremo, ecco il formidabile colpo di scena: Aristide allontanò dalla bocca il trofeo gastronomico e lo ripose di nuovo al suo posto. Allora, senza fretta, si alzò dalla sedia tenendo il vassoio ben sollevato, come se si trattasse dell’offerta ad una divinità e fece alcuni passi: io ero completamente disorientato. Sempre illuminato da quell’indescrivibile sorriso – che miscelava serenità, felicità e malinconia – Aristide si avvicinò ad una pattumiera lì vicino, premette il pedale per sollevarne il coperchio e delicatamente, dopo un ultimo lungo sguardo di muto addio, fece scivolare il maestoso panino nelle fauci spalancate del bidone.
Tornato al tavolino, Aristide radunò meticolosamente le cose sparse e ripose tutto nella sporta. Poi, dolce e sorridente, si avviò con passo leggero verso il piazzale del Gianicolo, divenne un puntolino lontano ed infine sparì. Molte volte ancora mi recai al “Gran Caffè del Belvedere”, ma né lo stanco cameriere né altri seppero mai spiegarmi l’enigma di quel rito. Quanto ad Aristide, riuscii solo ad apprendere che era un nobile decaduto ma del tutto sano di mente. Non lo rividi mai più.

L’ATTESA

I.

Gli enigmi storici mi hanno sempre affascinato ben oltre ogni ragionevolezza. Intendiamoci, però, perché la prospettiva di scoprire che Napoleone fu avvelenato dal suo medico o che Colombo non era genovese non mi suscita particolari emozioni. Ciò che invece mi attrae è dato dai segreti che si celano tra le righe della Storia, nei salti temporali che avviliscono le cronologie: sono quei misteri che – come diceva un mio vecchio professore del liceo, raffinato cultore di teorie eterodosse – arruffano ancora di più la barba all’ “Antico dei Giorni” dipinto da William Blake. Ad esempio, uno degli inciampi più intriganti per il mio vecchio maestro era dato dalle quattro righe rinvenute nel tomo VI della Chronica vera, un monumentale diario ancora giacente in manoscritto ed opera del cronista medievale Barberino da Rovezzano. In esse si cennava che nella torrida estate del 1360 un’armata imperiale forte di venticinquemila uomini, scendendo attraverso la Toscana al comando di Carlo IV in persona, si dirigeva verso Roma per metterla a ferro e fuoco. Incontro ad essa, disperatamente, si gettò una milizia di appena tremila pedoni comandati dal mitico cardinale e uomo d’armi Egidio Albornoz. Ciò premesso, Barberino annotò che i due eserciti erano giunti alle rispettive viste ma che dopo di allora non se ne era saputo più nulla: né notizia di battaglie, né di ripiegamenti, erano come svaniti nel nulla. I contemporanei, tuttavia, dettero tutti per morti e la Storia passò oltre. Bene, ma quei ventottomila soldati perduti nella bassa Maremma? Al riguardo il professore mi incitava sempre a ponderare con attenzione ed umiltà anche i fatti a torto dichiarati minori, perché da essi avrei imparato ad apprezzare valori fondamentali di cui forse non sospettavo neppure l’esistenza. Il tempo che ci è dato di vivere è ben scarso, quindi occorre spenderlo senza sprechi. Devi saper godere anche di beni inopinati come l’attesa – amava ripetermi – perché in un viaggio ciò che conta non è la meta ma il viaggio stesso.

II.

Confesso che, pur apprezzando l’intento educativo del mio professore, non riuscii mai a comprendere a pieno il senso delle sue raccomandazioni, almeno finché un giorno……. Ma andiamo con ordine. Erano trascorsi ormai tantissimi anni ed io non ero ancora diventato il famoso archeologo che oggi tutti conoscono. Essendo soprattutto un etruscologo, il mio lavoro mi portava spesso in Toscana e transitando sulla via Aurelia, a volte, indugiavo con un sorriso sull’ enigma del buon Barberino .
Ricordo (ma è adeguato questo verbo?) che quel 28 luglio il cielo era d’un azzurro tanto intenso da sembrare quasi irreale, mentre l’aria spargeva la frescura del recente acquazzone sui campi gialli di stoppie. Da poco mi ero lasciato sulla destra il colle di Capalbio, quando fui attratto da un folto filare di cipressi che – in cima ad un declivio, nella piatta campagna – nascondeva ai viaggiatori il profilo delle restanti colline. Per carità, nulla di particolare interesse, avevo già visto decine di volte quel paesaggio, ma qualcosa d’indefinibile mi spingeva adesso ad occuparmene più da vicino: il fiuto dello scopritore di necropoli era stato misteriosamente allertato. Fermai allora la vettura a bordo strada, presi la sacca degli attrezzi e m’incamminai attraverso i campi.

III.

Quello che sembrava un semplice filare d’alberi era in realtà un vero boschetto. Lo attraversai e mi ritrovai ad ammirare una grande vallata, sfolgorante per il contrasto tra il giallo e l’azzurro. Posai a terra la sacca. Il soffio della fresca brezza screziava l’immane silenzio, mentre notavo pure che il terreno era disseminato di larghe chiazze umide, segno che la pioggia aveva fatto riemergere l’antica vocazione paludosa di quelle lande. Il sole si avviava all’apice del suo splendore meridiano. Ero quasi commosso dal dispiegamento di potenza che la natura aveva deciso di ostentare sotto gli occhi di un solitario spettatore.

IV.

Erano trascorsi pochi minuti, quando mi parve che da un’infinita lontananza giungesse a tratti come un tonfo sordo, cadenzato. Man mano che il suono si avvicinava percepii che in realtà esso proveniva da due distinte e opposte direzioni: fu enorme il mio stupore quando mi accorsi che si trattava di un inequivocabile rullio di tamburi.
Dal versante nord della vallata avanzava una massa scura, mobile, irta di punte. Quando fu alla mia portata visiva potei chiaramente distinguere le innumerevoli schiere di fieri armigeri con lancia che – sotto il garrire d’una foresta di stendardi – precedeva il più grande corpo di cavalleria che avessi mai potuto immaginare. Davanti a tutti incedeva, solo, un imponente cavaliere il cui viso era offuscato dai riflessi di luce sulla ricchissima corazza.
Ero inebetito dalla sorpresa. Quasi meccanicamente mormorai tra me: l’imperatore Carlo IV! Non avevo ancora metabolizzato questa visione, quando mi accorsi che dall’accesso sud della valle veniva avanti quasi in ordine sparso – seppur anch’essa al ritmo dei tamburi – un’armata un po’ eterogenea e malmessa, preceduta da un cavaliere elegante, nobile, sulla cui corazza brillava un collare dal quale pendeva un grosso crocifisso. A quel punto non ebbi alcun dubbio: si trattava senz’altro del cardinale-soldato Egidio Albornoz.
Sotto le spinte cadenzate dei tamburi gli eserciti presero a manovrare, ognuno radunandosi per formazioni omogenee, assumendo l’ordine di battaglia. Al termine dei complessi rituali bellici fu di nuovo l’altissimo silenzio. I superbi condottieri si fronteggiavano da una distanza di circa cinquecento metri; dietro di loro le armate, immobili come statue di sale. Il vento s’insinuava dolcemente tra i vessilli, facendoli pencolare con un che di malinconico.
Intanto, nel cielo avevano cominciato a transitare nuvole di vario formato che viaggiavano ad una velocità incredibile, come in un film al massimo dell’accelerazione. Anche la luce mutava, alternando minuti di splendore ad altri di tenebra. Ebbi la sensazione che il tempo avesse subito una contrazione, dandomi l’opportunità di vedere in un paio d’ore il fluire di settimane, forse mesi. Nel frattempo le truppe erano rimaste ferme, senza segni d’impazienza.
Ad un tratto le nuvole smisero di correre e la luce si stabilizzò. Ancora al colmo dello stupore vidi che le armate silenziose presero lentamente a dissolversi, come se venissero assorbite dal terreno. Pochi istanti e il paesaggio tornò esattamente come l’avevo visto in principio. Fu allora che le gambe cedettero di schianto sotto il peso dell’emozione e caddi seduto, pesantemente.

V.

Quando riuscii, con fatica, a riprendere il pieno possesso delle facoltà sensoriali mi interrogai a lungo sul senso di quella visione. Ripensai alle parole del mio professore ed alla fine mi convinsi dell’unica spiegazione possibile, che qui cercherò di riassumervi alla luce dei miei successivi studi, anche se so già che vi sembrerà una follia.
L’imperatore era al comando di forze soverchianti quelle dell’avversario che, particolare non da poco, era in ultima analisi lo stesso papa Innocenzo VI. Egli quindi non poteva assolutamente attaccare per primo, sia per evitare di essere bollato come aggressore della Chiesa anche da coloro che normalmente non avevano buoni rapporti con la sede di Pietro, sia perché ingaggiando il combattimento egli non avrebbe potuto esimersi dallo sterminare quelle disperate milizie raccogliticce, il che gli avrebbe recato un disonore ancora maggiore di quello derivantegli dall’oltraggio al pontefice.
Il cardinale, dal canto suo, sapeva di essere in una insanabile condizione di inferiorità, numerica e qualitativa, di fronte all’armata imperiale. Non poteva quindi sferrare per primo l’attacco perché ciò avrebbe significato per i pontifici un rapido annientamento. L’Albornoz non temeva la disfatta di per sé stessa (nel suo giuramento cardinalizio aveva promesso di difendere la Chiesa usque ad effusionem sanguinis) ma solo perché ciò avrebbe spianato definitivamente la strada verso l’Urbe ormai inerme.
Tutto ciò poneva i due eserciti avversari nella medesima posizione: quella di dover attendere, a qualunque costo. E attesero, Dio sa quanto; immobili, studiandosi a vicenda, tesi fino allo spasimo. Passarono i giorni e le settimane, venne l’autunno con le piogge. Loro erano sempre là, schierati con le armi in pugno, aspettando che succedesse qualcosa. Inverno, primavera, ancora estate. Molti erano nel frattempo morti, ma erano ancora lì, ritti, spalla a spalla coi vivi, a presidiare l’onore, senza cedimenti. Nell’ottobre del 1361 morì l’ultimo soldato; nel 1365 i due eserciti scheletriti erano ormai sprofondati nelle paludi, ritti in piedi, ancora in formazione di battaglia. Ma essi non avevano tradito, avevano saputo attendere lucidamente oltre ogni fedeltà umana e pur senza aver pugnato salirono ugualmente al cielo degli eroi.

VI.

Come pervaso da un sacro furore presi allora la sacca degli attrezzi e mi precipitai giù nella vallata. Presi a scavare come un forsennato, agevolato dalla mollezza del terreno umido. Sotto uno strato di circa mezzo metro vidi la cima di un elmo. Scavai ancora e ne trovai un altro e poi un altro, in successione, tutti ricoprenti un teschio. Scavai per ore, fino a farmi sanguinare le mani: ne trovai a decine. Poi una spada, un elmo, un teschio umano, una corazza col crocifisso, una spoglia equina. Anche in morte l’Albornoz aveva brandito alta la spada, pronta ad impartire ordini, ma anche lui era affondato come chi non abbandona la nave ormai perduta. Nacque in quel giorno la mia gloria di archeologo.

L’INVIATO

Il Ragioniere si alzò di buon’ora, piuttosto preoccupato. Quella mattina aveva diverse pendenze da sbrigare, ma la più urgente e pressante era la vecchia pratica ancora giacente al Ministero, quella per la concessione della Stella al Valor Burocratico di IV classe. Dopo trent’anni di onorato servizio gli spettava di diritto, così come gli spettava l’annesso soprassoldo mensile di lire 8.650 lorde: ormai era deciso a sistemare la faccenda una volta per tutte, a qualunque costo, avesse dovuto piantarci le tende, lì dentro.
Uscì di casa con passo deciso, prese l’autobus e si diresse verso il Ministero con la mente in ebollizione. Personalmente non c’era mai stato ( di norma occorreva avere serissime ragioni per potervisi recare), comunque riconobbe subito il colossale edificio, anche perché con quelle statue, quegli archi, quei fregi, era proprio inconfondibile. Giunto ai piedi dell’altissima scalinata provò un leggero senso di smarrimento. Certo era veramente imponente, solenne, il Ministero, esattamente come l’aveva sempre immaginato: sembrava una cattedrale o, meglio, una montagna sacra. Era il cuore dello Stato!
Salì lentamente quei venerati gradini, con animo umile, rammentando a fior di labbra le norme protocollari che regolavano l’accesso ai templi del Potere. Varcò il portone bronzeo, levigato in più punti dal tocco delle mani devote di migliaia di questuanti, e fu forte la sua sorpresa nel vedere la portineria assolutamente vuota ed il vasto atrio deserto: ne ricevette un’impressione di stonatura, quasi di offesa. Di lato, quasi defilata, una porta dava su un lungo corridoio: non essendovi altro che quello si decise a percorrerlo. Era molto largo; sulla destra si aprivano ampi finestroni, sulla sinistra una serie di soglie chiuse per metà da una porta in legno massiccio. Camminando lentamente il Ragioniere poteva vedere l’interno delle stanze, tutte uguali: una ridondante scrivania di stile rinascimentale, una poltrona, un telefono, e una tappezzeria costituita esclusivamente da scaffali colmi di fascicoli bene ordinati, stipati fino al soffitto altissimo. Le stanze erano tutte deserte.
Il Ragioniere si stupì di essere giunto così in profondità nel cuore del Ministero e di non aver ancora incontrato nessuno. Giunse così in un punto dal quale il corridoio proseguiva senza i finestroni e su entrambi i lati c’erano soltanto monumentali scaffalature ricolme di pratiche, che spandevano un lieve ma non sgradevole sentore di muffa.
All’improvviso, qualcuno. Il Funzionario quasi si materializzò da un usciolo laterale e si avvicinò con reverenza al Ragioniere.
– Venga, prego, la stavamo aspettando da tempo. Lei è l’emissario del Presidente, vero? Io l’ho capito subito, sa? Mi segua, sua eccellenza il Ministro è ansioso di incontrarla.
Il Ragioniere era quasi in apnea per la sorpresa e non seppe ribattere nulla. Continuando a camminare, il Funzionario sciorinava mellifluo le sue informazioni.
– Come lei ben conosce, nei nostri uffici si amministra la Polvere dei Dicasteri Centrali, degli Enti Superiori e del Meccanismo dello Stato. Questi sono giorni di grande fermento, c’è un’attesa febbrile per il grandioso progetto che il Ministro si accinge a varare: la Normativa Speciale per l’Impiego della Polvere nelle Amministrazioni Periferiche ed Equiparate. Lei capisce, è una riforma fondamentale per il nostro Paese, oserei dire epocale, e il Ministro vuole sentire prima di tutto quello che lei avrà da riferirgli. (Esagerando il tono formale) Il…..Presidente….ha idee ben precise….e lei…sicuramente…ne sarà l’efficace relatore……..
Il Ragioniere era attonito, senza parole, impossibilitato a qualsivoglia reazione: avrebbe voluto protestare, gridare, ma – nel contempo – era tutto così incredibilmente naturale, disarmante. Ormai aveva completamente dimenticato la sua Stella al Valor Burocratico e la mente gli mulinava vorticosamente. Che fare? Fuggire? Tentare di chiarire l’evidente equivoco? L’imbarazzo era indicibilmente penoso. (In fondo al corridoio un punto nero segnalava inequivocabilmente l’ufficio del Ministro). Il Ragioniere camminava ancora, lentamente, tra le due alte file di scaffali, dalle quali promanava una sensazione di potenza come se stesse varcando il Mar Rosso al seguito di Mosè. Il Funzionario continuava a parlare con voce flautata ma ormai, con anche lo stomaco in subbuglio, non riusciva a percepirne le parole. (La porta sembrava un po’ più grande, ora).
– E adesso che dico, che faccio? Quello è il Ministro! Io non so niente, non c’entro niente. Però non posso deluderlo, lui mi crede veramente l’Inviato! Ma perché mi trovo in questo pasticcio?? – pensò tra sé.
I suoi passi ora gli rimbombavano nella mente insieme ai battiti cardiaci. (La porta si distingueva chiaramente).
– Io davvero non so nulla, non ho alcuna idea di ciò che il vero Inviato doveva illustrare. Io sono qui per la mia pratica………. – pensò ancora, lamentosamente.
(La porta era a pochi metri). Il Ragioniere era come paralizzato dal terrore.
– La mia pratica. La mia pratica. La mia…….. – biascicava meccanicamente, con gli occhi sbarrati.
La voce del Funzionario lo fece rinsavire di colpo: erano davanti all’imponente porta.
– Siamo giunti, infine. – disse il Funzionario con la sua voce suadente – Ora avvertirò sua eccellenza, poi faccia pure da sé, non mi permetto di importunarla oltre. (Con un leggero inchino del capo) Arrivederla, arrivederla. (Dà due colpetti sulla porta e chiama) Eccellenza!
Il Funzionario scomparve d’un tratto, così come era apparso sulla scena. Ora il Ragioniere era veramente e cosmicamente solo. Dall’altra parte della pesante porta di mogano una voce lontana rispose: “Chi è?”
A quel suono il Ragioniere divenne improvvisamente gelido, impassibile, sicuro di sè. Si schiarì lievemente la gola ed accennò un tocco alla cravatta, poi annunciò con voce alta e ferma:
– Sono l’inviato del Presidente……….

NAUFRAGIUM

Artemio De Nollo conosceva a perfezione la città vecchia, sicché un giorno pensò di unire la propria esperienza a quella di un amico fotografo al fine di scegliere gli scorci più suggestivi ed esporli in un’apposita mostra. Non era trascorsa neanche un’ora che già era lì – nell’assordante piazza di Torre Argentina – in attesa di Marcello Tideno, l’amico fotografo, pervaso da una lieve sensazione di emozionata impazienza.
Marcello giunse poco dopo e subito si diressero a piedi verso la vicina piazza Mattei, scattando una serie di foto alla meravigliosa fontana delle Tartarughe ed ai palazzi circostanti. Imboccarono poi una stradina laterale molto stretta, con una sorta di ponte tra due palazzotti: veloce raffica di istantanee da diverse angolazioni. Poco più avanti, sulla destra, si affacciava invece vicolo del Vento, un angiporto talmente angusto da sembrare quasi una fessura. Ad Artemio non sembrava di ricordarlo ma la cosa, in fondo, non lo interessò più di tanto, quindi “ordinò” a Marcello di seguirlo mentre gli occhi già gli brillavano di soddisfazione.
Dopo aver tentato di confondere i due con una serie di pittoreschi anfratti, il vicolo sfociò infine in una piazzetta rotonda, per gran parte in penombra, e che ora Artemio decisamente non ricordava di aver mai visto. Il tramonto dorava la metà superiore di alcuni palazzetti rinascimentali, mentre una deliziosa fontana (un Nettuno minaccioso su un cocchio tirato da quattro tritoni) riempiva del suo vellutato scrosciare quel piccolo eden romano. I metallici click di Marcello increspavano già la quiete della piazzetta.
– Eh, se adesso ci fosse Nicodemo! – pensò ad alta voce l’estasiato Artemio, riferendosi ad un amico comune anch’egli appassionato di Roma.
– E perché non gli telefoni? – rispose Marcello con naturalezza, senza interrompersi, come se si aspettasse qualcosa del genere.
Artemio convenne che era una buona idea e istintivamente girò intorno lo sguardo in cerca di un bar o di una cabina telefonica, ma sulla piazza deserta si affacciavano solo case. Si accorse infine di una bottega di falegname: non avendo alternativa vi si diresse rapidamente. Entrò, mentre un alto e corpulento signore di mezza età, imprigionato in un camicione verde, verniciava un mobile con pazienza certosina ma vagamente maniacale.
– Buonasera! Per favore, ha un telefono, qui? – esordì Artemio.
– Qui in negozio no. – sorrise il falegname – E’ nel retrobottega. Se vuole…….- aggiunse con invitante cortesia indicando una porticina sul fondo, qualche metro dietro le proprie spalle.
Artemio aguzzò gli occhi e nella fresca semioscurità distinse l’usciolo.
– Lei è veramente gentile. Un momento che avverto il mio amico. (Affacciandosi sulla piazza) Marcello, io sono qui, faccio in un attimo!
Passò poi dinanzi al falegname, scusandosi con un sorriso, e fece per aprire la porticina.
– L’interruttore della luce e il telefono sono subito a sinistra, entrando. – avvertì garbatamente il falegname.
Artemio ringraziò ed aprì. Da fuori allungò la mano, riconoscendo al tatto l’interruttore. Entrò di spalle, accendendo la luce e richiudendo con attenzione la porta. Si voltò: vide uno stanzone vuoto, senza finestre né altre aperture, illuminato a giorno anche se non c’erano fonti di luce visibili. Ne fu un po’ sorpreso, ma smise subito di pensarci; compì un mezzo giro su sé stesso per individuare il telefono.
Il telefono non c’era, così come mancava una qualsiasi suppellettile. Il luogo ispirava curiosità ma non angoscia. I muri erano bianchi, regolari, uguali al soffitto e al pavimento. Artemio si girò ancora attorno e stavolta si accorse di non trovare più la porta; era come trovarsi in un grande scatolone. Poggiò le mani su una parete, scorrendola rapidamente al tatto: era levigata e stranamente tiepida, di materiale indefinibile, forse sintetico. Si guardò ancora intorno, smarrito, non riuscendo a raccapezzarsi. Allora sedette in terra, aspettando che succedesse qualcosa.
Intanto il tempo era passato. Al di là della parete ora sentiva giungere la voce di Marcello che lo chiamava, preoccupato.
– Ma che fai ancora li? E’ da un’ora che ti ci sei rinchiuso!
– Marcello, non riesco ad uscire!
– Che dici?
– Non trovo più la porta!
– Non ti capisco!
– Aiutami, ti prego, non capisco più cosa sta succedendo!!
Adesso afferrava a tratti qualche parola di un fitto conciliabolo tra Marcello e il falegname. Gli parve di sentire Marcello che ipotizzava un malore e il falegname che si apprestava a sfondare la porta.
Entrarono. Il magazzino stantio, debolmente illuminato da una nuda lampadina pendente dal soffitto, mancava qua e là di larghi pezzi d’intonaco ed era ingombro di parti di mobili ancora grezze. Artemio era seduto su uno sgabello vicino al muro di sinistra, con lo sguardo inerte. Teneva la cornetta del telefono incollata all’orecchio e, come un automa, continuava a comporre il 4 sul disco numerato. Alzò gli occhi e si accorse della presenza dei due: il suo improvviso risolino lamentoso li fece rabbrividire. Poi, come un ebete, Artemio continuò ad insistere sul 4.

NOTTE DI NATALE

La sera di quel 24 dicembre era fresca di pioggia recente e scintillante d’ogni possibile luce. I negozi di generi alimentari vomitavano la loro sovrabbondante mercanzia fin sulle strade, mentre quelli di altra vocazione offrivano in oscena sequenza un’orgia di prodotti modernissimi, coloratissimi, elegantissimi, necessarissimi: in una parola, disperatamente inutili. Singole persone ma anche famigliole, tutti ben rivestiti di costosi panni caldi, passeggiavano nello scenario rutilante per fare acquisti o anche solo per guardare le vetrine. Gli adulti sfoderavano il sorriso ebete delle grandi occasioni, i bambini torturavano con fredda crudeltà qualche balocco non meno feroce di loro. Al centro della piazza campeggiava un monumentale albero natalizio, perché si sa che gli esseri umani usano soffocare le loro miserie sotto i simulacri più sfavillanti. In sottofondo si udivano gli zampognari avventizi che suonavano alla meglio vecchie melodie tradizionali.
L’anziano professor Medoro Contelli si avvicinò all’albero e lo osservò lentamente, dal basso verso l’alto; poi, in silenzio, dal modesto soprabito un po’ liso estrasse un flacone di liquido infiammabile e, vuotandolo senza fretta, se ne cosparse tutta la persona, mentre un passante distratto gli ficcava in mano qualche moneta. Accese un fiammifero e per un breve istante lungo quanto la sua intera vita lo guardò con infinita dolcezza…………. Le sua urla ora dilaniavano e insultavano il nitore cristallino di quel palcoscenico opulento, ma il popolo ben vestito continuava a sciamare senza sosta, rumoroso, col sorriso ebete e l’occhio crudele.
E venne infine la notte, la più gelida del secolo. Le botteghe erano ormai morte spelonche; il popolo metropolitano era stato inghiottito da mille festosi erebi; le luci ancora brillavano, grottescamente vane. Un intirizzito clochard, prossimo all’assideramento, si avvicinò ignaro al piccolo cumulo informe che ancora ardeva e vi si sdraiò lietamente accanto, salvandosi la vita. Nella notte di Natale era fiorito un miracolo.

OUROBOROS

………..era ormai terminato. D’altronde aveva pure ottantasei anni e già da parecchio si sentiva oppresso da una spossatezza sovrumana. Allora lasciò che la sua anima sciogliesse finalmente le vele e guardò con stupore il buio che ingoiava velocemente la scialba luce autunnale della stanza. Quando la tenebra fu totale Nicodemo spalancò gli occhi di colpo: si ritrovò alla fermata del solito autobus e pensò di aver sognato ad occhi aperti, anche perché lui stava andando al lavoro ed aveva solo cinquantasei anni. Improvvisamente, una lancinante fitta nel petto gli fece subito capire che il suo tempo era ormai terminato. Sentì la vita correre via, mentre con stupore guardava l’algido sole invernale che si oscurava velocemente.
Quando la tenebra fu totale Nicodemo spalancò gli occhi di colpo: si ritrovò ad attraversare la strada e pensò di aver sognato ad occhi aperti, anche perché era appena uscito dall’università ed aveva solo ventisei anni. Improvvisamente, si accorse del gigantesco autocarro che stava per investirlo e capì subito che il suo tempo era ormai terminato. Negli istanti che precedettero l’impatto, vide con stupore che la serica luce del mattino di primavera veniva come risucchiata velocemente da un punto lontano dell’orizzonte.
Quando la tenebra fu totale Nicodemo spalancò gli occhi di colpo: si ritrovò in sella ad una veloce motoretta e pensò di aver sognato ad occhi aperti, anche perché stava correndo dalla sua ragazza ed aveva solo sedici anni. Improvvisamente, si accorse d’una vasta chiazza d’olio sull’asfalto e capì subito che il suo tempo era ormai terminato. Mentre rotolava in terra come un fantoccio disarticolato, vide con stupore che il buio colorava rapidamente, come inchiostro nell’acqua, la luce intensa del pomeriggio d’estate.
Quando la tenebra fu totale Nicodemo spalancò gli occhi di colpo: si ritrovò seduto su una sedia a rotelle, in una casa di riposo per anziani, e pensò di aver sognato ad occhi aperti. Improvvisamente, un malore gli fece subito capire che il suo tempo…………

PRIMAVERA

Metropolitana, fermata Castro Pretorio: dopo una lunga ascesa dal sapore iniziatico sto per emergere dagli inferi. Al centro d’una lunga galleria pedonale l’improbabile menestrello strimpella, gorgheggiando alla maniera trasteverina, un’ antica canzone di lotta studentesca ridotta a grottesco folklore. Eppure, ricordo ancora (sono passati trent’anni) quella stessa canzone scandita in piazza con mille altri ragazzi, ebbri di vita ed abbagliati dai primi improvvisi tepori della struggente primavera romana. Ed eccomi qua, impacciato dal pesante giaccone, occhiali, cappello, guantoni di pelle, pochi capelli d’un colore indecifrabile, salpato da tempo dal molo dei quarant’anni. Sembro un fantoccio di neve in liquefazione, deformato dai primi improvvisi tepori di questa struggente primavera romana……..

REQUIEM

Il professor Ascanio Gregoriani, immerso nella fresca penombra del vasto studio, guardava pensoso un punto indefinito oltre la finestra, tenendo appena scostato il pesante tendaggio rosso damascato. Fuori, a perdita d’occhio, un’illimitata distesa di costruzioni fitte, uniformi: il distretto RD 19-53 del quadrante R/1. Secondo una terminologia desueta da secoli, si sarebbe potuto dire “Tivoli, quartiere di Roma” ma allora – nell’anno 2870 – i vecchi toponimi non li conosceva ormai più nessuno; al massimo, potevano apparire buffe stravaganze. Roma, anzi R/1, era un’orrenda megalopoli con quaranta milioni d’abitanti, un unico agglomerato cubiculare da Civitavecchia ad Anzio. Lui, Ascanio, apparteneva invece ad una élite di pochi privilegiati e poteva usufruire di circa cinquanta metri quadri tutti per sé, in virtù degli alti meriti accademici: era difatti uno storico fra i più celebrati per l’autorevolezza ed il rigore dei suoi studi, avendo affinato le sue capacità fino al traguardo estremo, ossia quello di poter svolgere le sue argomentazioni dando l’ineffabile sensazione di essere stato un testimone oculare dei fatti narrati.
Ascanio si ritrasse dalla finestra. L’ambiente era praticamente un’unica biblioteca dove i libri, oltre che negli scaffali di legno scuro e antico, erano disseminati ovunque in mucchi disuguali. Con l’aria perplessa, Ascanio si abbandonò nella comoda poltrona in pelle che con la sua mole dominava il caos di scartafacci stratificato sulla scrivania. Si sentiva molto stanco: pur avendo solo centoquarant’anni (il vecchio presidente dell’Accademia Perpetua ne aveva più del doppio) si sentiva addosso l’oppressione d’una sconfinata solitudine, proprio a causa della sterminata distesa di quella città ordinata, perfetta, brulicante e inutile. Lui amava Roma, non il mostro informe denominato R/1. La Roma splendida di Augusto, quella insanguinata del 1527, quella fangosa e sublime del Belli, quella barocca del Bernini. La Roma di Arnaldo da Brescia e di Cola di Rienzo; di Sisto V e di Pio IX. La Roma popolana, sfrontata, operosa, scanzonata, eroica, scettica, saggia; paganamente religiosa o forse religiosamente pagana. La Roma alveo della storia del mondo, dove i grandi della Terra suscitavano al loro passaggio nulla più d’una curiosità disincantata e momentanea. La Roma diffidente verso le novità e lenta ad adeguarvisi, certa com’era di aver già visto – prima di tutti gli altri – tutto quel che c’era da vedere e sapere, consapevole che sarebbe lietamente sopravvissuta a tutte le modernità via via destinate a scomparire. La Roma di Pasquino, Rugantino, Titta dell’Anguillara; luogo della memoria e struggente dimensione dell’anima.
Ascanio si scosse, turbato da altri pensieri. Da un momento all’altro sarebbe giunto il Gran Cancelliere dell’Accademia per comunicare formalmente ciò che lui ufficiosamente sapeva già da qualche giorno: il Supremo Senato, per consacrare la sua indiscussa autorità scientifica, aveva deciso di conferirgli l’Onore Massimo e Finale. Una parola semplice e terribile: immortalità. Il Gran Cancelliere gli avrebbe consegnato il messaggio di convocazione per l’indomani, nell’aula Magna dell’Accademia Perpetua. Lì, al cospetto degli altri immortali, la sua SBP (Scheda Biologica Personale) sarebbe stata distrutta: in altre parole, il suo nome non sarebbe mai comparso nei programmi di terminazione obbligatoria che, per legge, fissavano a trecento anni l’età degli esseri umani. Del resto, la sconfitta delle malattie e delle piaghe sociali rendeva ormai impossibile ogni dipartita prematura che non fosse deliberata dal Potere Centrale: la violenza era inibita da certi ormoni inoculati dopo la nascita, così come lo erano la stessa morte naturale o persino il suicidio.
Ascanio rimuginava su tutto ciò mentre, quasi senza volerlo, si era nuovamente accostato alla finestra per osservare l’immane ma silenziosa foresta di edifici del distretto RD 19-53. In un attimo prese la sua decisione e constatò che il tempo a disposizione cominciava a scarseggiare.
Il Gran Cancelliere, non trovandolo in casa, avrebbe immediatamente allertato il Sistema Informativo Generale: sarebbe stato rintracciato nel giro di pochi minuti e, accusato di Trasgressione, sottoposto al Programma Permanente di Condizionamento. Stante la sua età, quindi, la prospettiva era di centosessant’anni di prigione mentale prima della terminazione ai sensi di legge. Occorreva far presto. Il Gran Cancelliere era un po’ svanito e forse se la sarebbe presa comoda: Ascanio avrebbe potuto accumulare un sicuro vantaggio. Accostatosi alla libreria, cominciò velocemente a cercare qualcosa tra le migliaia di libri. Man mano che i minuti scorrevano la ricerca si faceva più febbrile e i volumi venivano scaraventati in ogni direzione. Finalmente, ormai col cuore in gola, Ascanio trovò quel che cercava. Era un libro di grande formato ma di modesto spessore, rilegato in cuoio marrone ed ornato di tenui fregi dorati lungo i bordi. Si sedette per consultarlo. Dopo aver letto con estrema attenzione una certa pagina, Ascanio si placò. Posò il volume sulla scrivania e, tastando una parete, cercò uno sportello mimetizzato nella tappezzeria. Aprì un ciondolo che da sempre portava al collo (una sorta di scatolina recante inciso il suo nome), ne estrasse una piccola chiave ed aprì lo sportello.
Dall’oscurità del vano emersero via via uno splendido elmo rinascimentale completo di piume, una corazza lucente finemente cesellata, schinieri, una sciabola con l’elsa tempestata di gemme. Vennero pure fuori giubba e calzoni di antica foggia, sciarpa di seta con frange, calzature d’epoca. Ascanio raccolse tutto quasi con venerazione e lo ripose in un contenitore anonimo, pratico da trasportare. Quel corredo era patrimonio della sua famiglia da secoli ed era appartenuto a Marcantonio Colonna, che l’aveva indosso il giorno della gloria di Lepanto: una frase incisa all’interno della corazza ne ricordava il primo proprietario. Ascanio sfiorò con le dita una vistosa scalfittura al centro della corazza e le sue labbra si incresparono in un embrione di sorriso. Raccolse il bagaglio, si guardò rapidamente intorno come per imprimere nella mente l’immagine della sua casa e dei suoi libri, poi, bruscamente, uscì con passo svelto. Il misterioso libro era rimasto aperto sulla scrivania, alla pagina su cui aveva tracciato un segno.

* * *

Per le strade le persone si muovevano senza alcuna fretta, avvolte in lunghe vesti di vario colore che denotavano la loro diversa classe sociale. Con uguale calma Ascanio si diresse verso la metro sotterranea e presto scomparve fra la folla taciturna. In capo ad un’ora giunse a destinazione, a ridosso della città vecchia, e si spinse sino al pomerio, la fascia di rispetto che era stata creata intorno alle decrepite Mura Aureliane affinché nessuno si sentisse ispirato di varcarle. Del resto, in quell’epoca asettica era stato sufficiente apporre lungo l’intera cinta dei gran cartelli con l’indicazione di “zona contaminata” per dissuadere chiunque, senza impiego né di sentinelle elettroniche né di ostacoli fissi. Con una destrezza di cui egli stesso si stupì, Ascanio attraversò velocemente il pomerio e si insinuò tra gli intricati arbusti che celavano quella che fu Porta Flaminia. Assicuratosi che nessuno l’aveva notato o seguito, entrò nella città vecchia, ormai in salvo: lì non c’erano i sensori del Sistema Informativo Generale e pertanto, anche ammesso che la sua fuga fosse stata nel frattempo scoperta, per l’occhiuta Polizia Speciale lui era ormai semplicemente irreperibile, dissolto nel nulla.
Finalmente, Ascanio poteva contemplare in tutta calma la vecchia Roma, ridotta ad un bosco urbano come in certe vedute del Piranesi. Piazza del Popolo era una lussureggiante prateria verde su cui svettava l’obelisco centrale, mentre i leoni del Valadier appena si intravedevano tra gli alti cespugli. Qualche secolo prima il Potere Centrale aveva pensato di radere al suolo quelle vestigia d’un tempo infetto e barbaro – contenute nel circuito delle Mura, ed ormai incompatibili con l’era di perfezione appena inaugurata – ma poi qualcosa dovette turbare le coscienze degli Augusti Padri e così si ripiegò sulla dichiarazione di “zona contaminata”. In realtà a Roma non c’era nulla d’inquinato ma, tranne che per Ascanio, il deterrente si era rivelato infallibile. La “damnatio memoriae” ai danni di monumenti e palazzi non fu però estesa ad un certo culto per la Storia, e l’Accademia Perpetua era stata fondata proprio per tramandare ciò che di positivo si irradiava dal fondo dei secoli. Ascanio, tuttavia, non era mai stato un personaggio di comodo, essendo capace di portare all’attenzione generale anche fatti ed argomenti spiacenti al Potere Centrale, ma l’autorevolezza scientifica ed il rigore morale ne avevano sempre protetto la carriera.
Senza più fretta, Ascanio aprì il bagaglio e ne trasse il corredo del Colonna: se ne rivestì con grande cura e si avviò poi verso via di Ripetta, non senza un brivido l’emozione nel poter palpare con la mano sinistra l’elsa della spada che sfolgorò nel sole di Lepanto. Nonostante le strade fossero ormai delle gole irte di sterpi su cui si affacciavano edifici penosamente diroccati, i colori del tramonto romano erano sempre quelli – struggenti, con riflessi d’oro e di fiamma – di secoli prima: quell’oro e quella porpora che formavano lo stessa stemma di Roma. Ascanio conosceva bene quella meravigliosa immutabilità, anche perché non era certo la prima volta che percorreva quei canali di pietra corrosi dal tempo. Erano state innumerevoli le occasioni in cui aveva violato, nel massimo segreto, le barriere della “zona contaminata” e ciò era stato determinante nella sua carriera, ma ora – trascorsi ormai diversi anni dall’ultima incursione – riassaporava con nuove emozioni il contatto con quei luoghi per lui sacri, linfa della sua vita e del suo spirito: ad essi, a ciò che avevano rappresentato, si era dedicato con una devozione sacerdotale, nella convinzione che l’amore per Roma costituisse pure un’irripetibile esperienza di valore iniziatico.
Camminava ora di buon passo, ben conoscendo i sentieri che col tempo si era ricavato tra gli arbusti. Il sole declinava velocemente ed occorreva sbrigarsi, poiché il buio sarebbe ben presto divenuto una greve coltre senza scampo. Imboccò allora la fuga di vicoli e vicoletti che l’avrebbero condotto verso il Pantheon e i cui nomi onirici scorrevano sotto gli occhi velati di commozione, facendo pulsare più forte il cuore: la Maschera d’Oro, le Cinque Lune, la Spada d’Orlando, l’Anima, il Paradiso, il Campo dei Fiori, la Stelletta, il Pozzo delle Cornacchie; e poi ancora lo zoo fantastico con l’Orso, la Gatta, la Lupa, il Biscione, il Leoncino, il Gallo, la Scrofa, il Babuino, la Scimmia. Guardò quel cielo sublime divenuto rosa, indaco e turchino su cui si stagliavano scure cupole e guglie, poi con un nodo in gola declamò tra sé qualcuno dei versi meravigliosi che Giorgio Vigolo aveva dedicato a Roma con “I contrabbandieri”.

Per le strade del papa,
affossate tra i muri
di chiese alla fonda nel buio,
tutte le finestre sono spente,
tutte le donne sono morte.
I passi del viandante a mezzanotte
risuonano su un vuoto
di grotte e di catacombe.
Altissime le vele delle cupole
gonfie del vento d’Iddio
si perdono fra le nuvole,
navigano nell’infinito,
trascinando nella notte
questi vascelli carichi di tombe
che fanno contrabbando
di mistero con l’aldilà (…)

Superando il tempio di Agrippa, Ascanio entrò nella chiesa della Minerva. La seconda cappella a sinistra apparteneva alla famiglia Gregoriani e lì riposavano generazioni di suoi antenati, compreso l’ignoto guerriero che il suo avo Bonifacio raccolse a Porta Pia il giorno stesso della Breccia. Una circostanza straordinaria, tramandata poi di padre in figlio, convinse il conte Bonifacio a dare cristiana sepoltura a quello sconosciuto nella propria cappella gentilizia, col sovrano beneplacito della Santità di papa Pio IX, ai cui piedi si era prostrato per narrare i portentosi fatti. E proprio dal Santo Padre il buon Bonifacio aveva ricevuto l’approvazione ad inumare lo sconosciuto facendolo passare per un parente del ramo cadetto, assegnandogli un nome assai diffuso nei vari gruppi familiari: Ascanio.
L’Ascanio del XXIX° secolo guardò il sepolcro del suo misterioso omonimo, sul quale spiccavano solo il nome, la casata e l’anno di morte, ed ebbe un mesto sorriso.
Gli ultimi dardi di sole impolverato che filtravano dai brandelli d’un’alta vetrata policroma lo colsero mentre con le dita sfiorava le lettere dorate apposte sull’avello. Ma ormai era veramente tardi e Ascanio uscì di corsa. Raggiunse palazzo Gregoriani nella vicina via del Seminario e con fatica si fece largo fino al cortile interno, visto che negli anni di assenza le sterpaglie erano cresciute rigogliose. Aprì una porticina, poi un’altra e un’altra ancora. Nel buio ormai totale intravide tuttavia le cromature sempre lucenti della Macchina ed al tatto la saggiò qui e là: era integra. Apri il portello ed accese una luce interna. Entrò nell’abitacolo con qualche difficoltà, a causa dello scomodo vestiario; si sedette, poi fece una pausa come per concentrarsi mentre si toglieva l’elmo piumato. Manovrando con sicurezza nella selva di pulsanti, display ed altro, attivò i comandi necessari. Impostò dei dati sul computer di bordo, schiacciò un pulsante verde.

* * *

Il Gran Cancelliere dell’Accademia Perpetua giunse con passo lento fino all’uscio del prof. Gregoriani e si meravigliò nel trovarlo pressoché spalancato. Dopo una breve esitazione entrò, timoroso, e vide la gran quantità di libri sparsa disordinatamente un po’ ovunque. Più volte chiamò Ascanio a voce alta, senza allarme (l’Ordine Assoluto non contemplava gli imprevisti), ma non avendo ricevuto risposta si sedette intanto alla scrivania. Mentre attendeva che immancabilmente succedesse qualcosa, serenamente prese a rigirare tra le mani il volume di cuoio marrone che gli si parava innanzi e che sembrava l’unico sopravvissuto al ciclone. Sfogliandolo si accorse che era un manoscritto, redatto su fogli di carta ruvida ed ancora odorosi della liquirizia che costituiva l’ingrediente base dell’inchiostro. Poiché doveva attendere l’arrivo di Ascanio, pensò che leggerne qualche passo non sarebbe certo dispiaciuto al vecchio amico. La lettura lo assorbì immediatamente fin dal frontespizio interno:

MEMORIA SEGRETA CHE BONIFACIO GREGORIANI CONTE DI CANTERNO E CAPITANO DEI DRAGONI PONTIFICI RIVOLGE ALLA SANTITA’ DI NOSTRO SIGNORE PIO IX, PER GRAZIA DI DIO PAPA E RE, IN ORDINE AI FATTI STRAORDINARI DI CUI FU TESTIMONE IL GIORNO 20 SETTEMBRE DELL’ANNO DI NOSTRA SALUTE 1870

Il mattino dell’infausta giornata in epigrafe il sottoscritto era al comando d’un drappello di Dragoni attestati a presidio della Porta Pia. Ad ore dieci ebbe inizio il cannoneggiamento da parte degli usurpatori Piemontesi; ad ore undici i medesimi, cessate le salve d’artiglieria, cominciarono con le scariche dei fucilieri, cui i valorosi Dragoni a’ miei comandi risposero con energia ma nell’ossequio delle disposizioni impartite dalla Santità Vostra affinché la difesa della sede di Pietro fosse più che altro dimostrativa del sopruso patito.
Mentre i primi Bersaglieri Piemontesi lanciati all’assalto erano già a ridosso delle nostre posizioni, e qualche istante prima che impartissi l’ordine del cessate il fuoco per consentire il subitaneo ripiegamento, accadde un fatto terribile e straordinario. Mi accorsi che alle nostre spalle incedeva con passo grave un uomo alto, di lunga capellatura bianca e barba anch’essa lunga e bianca; era vestito alla foggia del Cinquecento, con elmo piumato, preziosa corazza cesellata, sciarpa di seta cinta ai fianchi, una spada dall’elsa incrostata di gemme. Senza profferire parola veruna lo sconosciuto si fermò a poca distanza e mi guardò per qualche istante fisso negli occhi: aveva uno strano sguardo melanconico e sembrava che mi conoscesse mentre io mai l’avevo visto prima d’allora.
Allorché i Piemontesi lanciarono l’attacco, l’uomo misterioso sguainò la spada e correndo andò loro incontro, gridando con voce terribile. Superò di slancio il nostro stesso Drappello ed era quasi al sommo della trincea quando lo vidi fermarsi un istante, poi vacillare indi cadere in terra come morto. Velocemente i Dragoni lo trassero fra le nostre fila e potei guardarlo bene in viso. La Santità Vostra perdoni ora il mio dire, ma m’incombe il sacro e supremo dovere di riferire con esattezza tutto ciò di cui fui testimone: ebbene, lo sconosciuto era come se mi somigliasse, come se avesse il mio stesso sembiante ma carico d’anni e di vecchiezza. Continuando l’esame, notai che un colpo di moschetto l’aveva colpito sulla parte sinistra della corazza, scalfendola, ma la medesima palla doveva esser schizzata via per poi colpire a morte nel pieno della fronte: ciò dedussi perché l’elmo impediva l’impatto frontale e non presentava lesioni. Il viso era sereno, e se non fosse stato per il rosso foro di tra gli occhi, si sarebbe detto assorto in soavi pensieri.
La responsabilità degli avvenimenti successivi a tale fatto straordinario, essendo già al cospetto di Dio, sottopongo ora al giudizio della Santità Vostra, dalla quale mi attendo con pari docilità la paterna approvazione o la suprema esecrazione.
Chiunque fosse quello sconosciuto era tuttavia un valoroso che si era immolato in difesa del Trono e dell’Altare, adunque pensai far cosa grata alla Santità Vostra preservandone le spoglie dalla curiosità dei Piemontesi.
Approfittando della tregua offerta dallo stupore di questi, feci caricare su un carro sia il corpo dello sconosciuto che una sorta di cabina di metallo lucente dalla quale esso medesimo sembrava aver preso le mosse.
Alla testa del mio Drappello mi recai di gran carriera dapprima al palazzo gentilizio in via del Seminario, ove depositai al sicuro il misterioso manufatto metallico, indi alla chiesa della Minerva, ove la mia Casa gode onore e privilegio di sepoltura. Quivi giunto, sapendo esservi un avello ancor vuoto, vi feci deporre lo sconosciuto dopo aver recuperato la preziosa assise da guerriero al fine di tramandarne la magnificenza. Fu allora che ebbi una nuova mirabolante sorpresa, poiché un’incisione interna alla corazza certificava senza ombra di dubbio trattarsi della medesima che già ricoprì Marcantonio Colonna nella fulgida vittoria di Lepanto. Seppur ancora frastornato dal novero di portenti cui assistei in quel 20 di settembre, ritenni comunque che quel corpo non dovesse conoscere la nudità della pietra, tanto più che le gravi circostanze mi impedivano di onorarlo con adeguato feretro e cristiane esequie, sicché staccai dalla parete quel vessillo coi colori di Santa Madre Chiesa che già ebbi il privilegio di portare in battaglia in quel di Castelfidardo e vi avvolsi a mo’ di sudario le spoglie mortali. In gran fretta richiusi il sepolcro anonimo e ci disperdemmo prima che gli usurpatori Piemontesi potessero infastidirci, non prima però di aver fatto giurare solennemente ai miei uomini il più sacro e inviolabile silenzio su tutta la misteriosa vicenda.
Tutto ciò sono quindi a porgere ai piedi della Santità Vostra, rimettendomi con docilità di figlio alla suprema saggezza del successore di Pietro.
Bonifacio Gregoriani di Canterno

* * *

Il Gran Cancelliere terminò perplesso la lettura del manoscritto. Voltata l’ultima pagina trovò questa annotazione:

Poscritto in data 23 settembre 1870, a perpetua memoria. In data di ieri la Santità di N.S. si è degnata di approvare benignamente l’operato del sottoscritto. Avendo offerto al Santo Padre tutto ciò che fu già dello sconosciuto, ne ricevetti segno di alta distinzione col dono dell’assise e dell’abitacolo metallico. Sua Santità mi dette altresì istruzioni verbali, con vincolo di segretezza pena la scomunica “latae sententiae”, a che sull’avello venisse apposta l’intestazione ad Ascanio Gregoriani, essendo quel prenome assai diffuso nella nostra Casa, unitamente al solo anno di sua dipartita. A notte fonda, con pochi fidati, mi recai alla Minerva e compii la pietosa missione. Lascio la presente memoria affinché un giorno, anche lontanissimo, qualcuno possa infine palesare sia l’identità vera del misterioso eroe a cui la Casa Gregoriani ha avuto l’onore di offrire il postremo asilo, sia la reale funzione dell’oggetto metallico in forma d’armadio che gli appartenne e del quale non ci fu dato altro che di poterne mirare la portentosa lucentezza.

TRANSITUS

Nella sera d’una domenica qualunque, Baudèmagus attendeva il tram alla solita fermata. Dopo circa un quarto d’ora vide il leviatano metallico avvicinarsi con andatura incerta, spingendo innanzi a sé lo sguardo attonito del suo unico occhio. Si fermò con lieve stridore e subito ripartì.
Sui sedili giacevano come sacchi postali alcuni operai e madri di famiglia; persone dal viso cupo, la cui fissità – rappresa nell’ambra giallognola della luce interna – era scalfita solo dai frequenti sobbalzi del mezzo. Per oltre un’ora Baudèmagus condivise la sorte di quei corpi ignoti e tormentati, poi scese.
“Un uomo non muore completamente finché c’è qualcuno che ne pronuncia il nome”: questo antico detto gli si dilatava nella mente come fosse stato un sasso gettato in uno stagno. Indugiò a lungo nell’osservare il tram che caracollando si allontanava verso il capolinea; lo vide diventare un punto luminoso sempre più piccolo, finché non venne inghiottito dal buio con tutto il suo dolente fardello. Ognuno avrebbe poi preso quietamente altre vie verso l’oceano sotterraneo dell’anonimato, il moloc che macina esistenze e cancella crudelmente ogni traccia di transito umano.

UN GIORNO QUALUNQUE

Il ragionier Agenore si svegliò alle sei, come faceva ormai da vent’anni ed avrebbe fatto nei successivi venti. Si alzò con molta cautela per non destare la moglie e si avviò al bagno con passo felpato, socchiudendo al passaggio la porta della stanza dei bambini. Si dispose alla rasatura di buon umore, fischiettando sommessamente un motivetto popolare; giunse poi alla fine delle abluzioni che ne gorgheggiava i versi, ma a voce bassa, quasi impercettibile, per non svegliare nessuno.
Ed ecco il momento del caffè. Mentre il liquido aromatico e bollente si spandeva nella caffettiera, Agenore chiuse gli occhi sorridendo, pensando ai lontani paesi tropicali da cui provenivano i preziosi chicchi. Anzi vedeva con la mente pianure e fiumi inesplorati, foreste lussureggianti e villaggi calcinati dal sole…..Ma riaprendo gli occhi vide l’orologio a muro e si scosse, a malincuore, pensando già alla sua scrivania, all’ufficio.
Si rivestì con cura di un abito anonimo e dal colore indefinibile, lasciò il denaro per la spesa quotidiana sul tavolo di marmo della cucina e si portò all’ingresso. Come d’abitudine, prese dalla cappelliera il berretto a sonagli da giullare, calzandolo bene in testa, poi prese la borsa di finta pelle, consunta e annerita.
Aprì la porta. Udì lontanissima la tromba che suonava il deguello. Istintivamente richiuse la porta, serrando le dita sulla maniglia, e la musica cessò (dopo tanti anni ancora non riusciva a farci l’abitudine). Dopo qualche istante, rinfrancatosi, riaprì la porta e la musica stavolta si udì più netta. Guardandosi allo specchio, il ragionier Agenore dette un ultimo tocco al berretto e uscì.

UNA VITA

“Serralta Vitaliano, anni 75, vedovo, senza parenti noti. Risulta aver prestato servizio per anni 45 all’Ufficio del Catasto con la qualifica di applicato aggiunto di IV classe; in quiescenza da dieci anni. Deceduto per cause naturali nel suo proprio domicilio, presumibilmente la notte del 2 gennaio corrente anno”. Pur nell’arido linguaggio del mattinale di polizia la vita, la lunga, quieta e oscura vita di Serralta Vitaliano era tutta lì.
L’impietosa autopsia di sentimenti, ricordi, ansie e pudori era nelle robuste mani del maresciallo Ametrano, man mano che inventariava una piccola mole di oggetti da riporre via via in uno scatolone. Ecco dei quaderni scolastici ingialliti, un orsetto di pezza spelacchiato (forse ricordo del figlio), un diploma scolastico; ecco le foto sorridenti d’un lontano matrimonio, d’un bambino in fasce, d’un giovanotto in divisa. Alcune lettere d’amore su un’ormai sbiadita carta ornata di fiorellini, un encomio del direttore, un cartoncino listato a lutto con l’immagine della sposa adorata, un libretto di pensione. Ed ancora, ricevute d’un antico mutuo edilizio, qualche cambiale ormai onorata, perfino alcuni conti della spesa; un grosso quaderno a righe vergato fittamente, forse un diario, con i sogni e i sospiri di una vita.
Finito di stipare il materiale, il maresciallo tamburellò brevemente le dita, poi guardò l’orologio: tra dieci minuti sarebbe scaduto il termine amministrativo per quanti avessero voluto reclamare le povere cose di Serralta Vitaliano, anni 75, ecc. ecc., perché poi la legge ne disponeva – con un eufemismo – l’archiviazione definitiva.
Ametrano Giuseppe, maresciallo di Pubblica Sicurezza, anni 45, in servizio da 25, attese ancora venti minuti oltre il termine, poi s’incamminò verso casa – avendo ormai terminato il servizio – con l’ingombrante scatolone portato a spalla. Al primo cassonetto della nettezza urbana il maresciallo adempì il suo compito istituzionale depositandovi il fardello e la sua serenità: da quel giorno un oscuro, inspiegabile turbamento lo avrebbe sottilmente perseguitato per tutto il resto della sua vita.

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