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Tra peste, colera, malaria e pandemie

Marzo 27
10:44 2020

Quando la peste dell’inizio del ‘600 colpì Milano, i maggiorenti della città “chiesero al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di San Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in scandalo. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasione troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spandere sempre più il contagio: pericolo ben più reale”.

Come poi ricorda il Manzoni, nei ‘Promessi sposi’, il cardinal Federico Borromeo, ché di lui si trattava, resistette ancor qualche tempo, ma alla fine cedette alle insistenze e la processione si effettuò, sicché con la calca che ne seguì i contagiati aumentarono a dismisura.

Oggi a Milano, come in tutta Italia e nel mondo, si è diffuso un virus inquietante contro il quale non sembra per ora che si siano trovati rimedi efficaci, se non quelli di restare chiusi in casa e interrompere la maggior parte delle attività lavorative e scolastiche. Gli ordini governativi sono stati messi in atto e la maggior parte della gente li sta giustamente eseguendo, perché è ormai noto che i virus, e questo in particolare, si propagano con i contatti umani. Questa prassi di interrompere qualsiasi pubblica iniziativa, è stata condivisa da subito anche dalle autorità ecclesiastiche, a cominciare dal papa, nonostante che più di qualche frateria e consorteria bigotta (ma quanto ‘credente’?) avesse gridato allo scandalo e magari anche all’eresia, sollecitando che si facessero invece subito pellegrinaggi e processioni varie. Costoro evidentemente non avevano letto il Manzoni!

Meno male che in certe gravi circostanze per lo più laici ed ecclesiastici, hanno fatto capire che pregare e confidare nella Provvidenza non significa solamente assemblarsi e raggrupparsi e così sono state bloccate sul nascere iniziative di dubbia efficacia e di impropri miracolismi.

Ciò che invece è stato finora impossibile bloccare è tutta quella pletora di messaggi, fakenews, pareri non richiesti di pseudo esperti e quant’altro va circolando su canali televisivi, cellulari e sui vari gruppi di watsapp et similia. E in questa circostanza sono riapparsi gli ‘untori’: capri espiatori sono diventati  a turno le varie specie di animali selvatici o più o meno domestici che, poverini, non sono in grado di poter smentire le accuse, i cinesi che avrebbero fabbricato il virus in laboratorio, i russi che avrebbero finto di ignorarlo, fino a non si sa quale altra diavoleria verrà ancora messa in giro.

E’ fuori di dubbio che la caccia alle streghe è un gioco ancora in auge in quest’epoca post-moderna ma, se ci sono accuse più o meno da indirizzare, queste vanno a quella  parte di maggiorenti mondiali che ha sottovalutato la gravità del contagio, cosa che ora si sta ritorcendo purtroppo anche nei loro Paesi.

Ma ritorniamo al ‘600 e anche ai nostri territori tuscolani i quali più volte furono colpiti da vicende legate a pestilenze, colera, malarie, ‘spagnole’…. Oggi, in un’epoca di continue scoperte scientifiche e tecnologiche ma anche di nuovi e gravi mali sulla cui origine non sempre la scienza riesce a dare spiegazioni convincenti, rievocare alcune di queste vicende  può servirci a recuperare non tanto antiche e superate tradizioni anche devozionali, quanto  riandare alle radici  della nostra storia da cui trae origine anche la forza comune per superare gli eventi.  La vicenda più antica risale e riguarda la peste del 1656 che era arrivata dalla Sardegna, come scriveva il cardinal Girolamo Gastaldi nel suo De avertenda et profliganda peste (Bologna 1681), “penetrò serpeggiando in Napoli, nel litorale romano e in Genova, e quindi in non poche parti d’Italia”. Anche nei dintorni di Roma pertanto v’era una certa preoccupazione, quando, il 18 giugno del 1656, nella chiesa di Santa Maria in Vivario le prime ‘croste’ dello stucco che ricopriva completamente le immagini dei due santi Sebastiano e Rocco (e delle quali nulla si sapeva), cominciarono spontaneamente a distaccarsi davanti agli occhi meravigliati di una  donnetta orante e, successivamente, di fronte ad una folla che si era rapidamente radunata con la presenza dello stesso monsignor Bottoni, allora suffraganeo del cardinal Giulio Sacchetti vescovo di Frascati, il quale per accertarsi dell’inatteso evento si dice abbia provato lui stesso con una lama a togliere l’intonaco rimasto. Fatto sta che la peste per quella volta non colpì Frascati e dintorni e da allora si parlò di ‘miracolo’ tanto che per i due santi si faranno grandiose manifestazioni religiose soprattutto alla scadenze dei centenari fino a elevarli a compatroni della città (mentre S. Rocco diventava patrono di Rocca Priora  (v. V. Marcon, Due Santi per Frascati, Sebastiano e Rocco tra fede e folclore dal ‘600 al secolo XX,  Censes, Roma 2010).

Dopo di che  non furono poche le epidemie o i contagi che colpirono nei secoli seguenti i nostri Castelli. Per venire al secolo XIX, l’Ottocento è un periodo non solo caratterizzato da  numerose scosse telluriche (a partire dal 1806 e negli anni successivi) ma anche delle epidemie di colera che, ad intermittenza, si diffondevano per il mondo. Una di queste investì l’Europa a partire dal 1831 arrivando anche in Italia ed a Roma. A Frascati il 14 agosto del 1831 dopo la processione del SS.mo Salvatore esposto in cattedrale, venne l’ordine dell’Em.o Vescovo Cardinal De Gregorio che si facesse un ottavario di penitenza in onore di S. Rocco e S. Sebastiano, stante il malore detto Collera Morbus che affliggeva non poco le parti settentrionali dell’Europa e faceva dei progressi avanzandosi verso il mezzogiorno, per cui era stata attaccata anche l’Ungheria e minacciava l’istessa Vienna e l’Italia. Ma pochi anni dopo, nel 1837, con l’espandersi del colera anche nello Stato pontificio, pure Frascati ne verrà colpita con diverse vittime, contrariamente a quel che scriveva Pietro Santovetti, per il quale alcuni pochi cadaveri vi furono per cautela sepolti e poi cessato il malore disumati e sepolti nel Cemeterio dell’Ospedale. In realtà (tra l’estate e l’autunno del 1837) si contarono circa 60 morti (anche se forse non tutti erano stati contagiati dal colera perché, per evitare il contagio, quanti morivano in quel periodo vennero sepolti in una località distante da Frascati circa un chilometro (Gargacciolo). Contrariamente alla prevista riesumazione e sepoltura dei cadaveri, cessato il malore, questa non si ebbe che alcuni anni dopo e solo a cura e per l’impegno della Confraternita della Morte e Orazione, altrimenti quei poveri morti sarebbero ancora giacenti in quel luogo!

Ma la vicenda del colera si ripeté alcuni anni dopo (1867), anche se dalle nostre parti non ci furono gravi conseguenze ché anzi Frascati accolse qualche decina (e non migliaia come spesso si racconta) di benestanti cittadini romani che fuggivano dalla Capitale!

E così alcuni anni dopo, durante l’amministrazione del sindaco Valenzani, il sindaco di Roma, il radical-repubblicano e capo massone Nathan, ormai in fase calante, volle retoricamente (e propagandisticamente) gemellarsi con Frascati. Era il 1912 e Frascati venne insignita – per la vicenda del colera (1867) – della cittadinanza onoraria romana (e come si definì anni dopo) dell’appellativo di ‘terra ospitale ed amica’. A tal proposito sulla facciata del palazzo comunale si affisse una lapide con la seguente iscrizione: ‘Or sono quindici lustri – mentre fiera epidemia colerica – flagellava Roma – Frascati – ascoltando solo la voce della solidarietà fraterna – a migliaia i fuoriusciti fuggenti ospitava – Roma e Frascati – a testimonianza del costante affetto – 20 ottobre 1912’! In realtà le ‘migliaia’ di romani che vennero a Frascati non furono che poche decine per lo più di personaggi facoltosi e benestanti ospitati nelle ville principesche! (v. V. Marcon, L’Associazionismo Cattolico Tuscolano, vol I, Le Confraternite di Frascati, Caramanica, Scauri 2018).

E per finire, non vanno dimenticate le periodiche febbri malariche che colpivano i nostri Paesi, a causa della diffusione della zanzara anopheles, studiata dal prof. Angelo Celli (morto a Monza nel 1914 ma sepolto a Frascati). La malaria era diffusa soprattutto nell’Agro Romano, dove solo alcuni pionieri della educazione scolastica (Giovanni Cena, S. Aleramo, D. Cambellotti, A. Fraentzel, ecc.) e della medicina (Celli) lavoravano per la crescita culturale e civile delle popolazioni che allora vivevano sparse in capanne malsane (Colle di Fuori, Capranica, ecc.). La malaria era particolarmente diffusa soprattutto a fine Ottocento. Nella sacrestia della Cattedrale tuscolana sono ancora visibili alcune lapidi a ricordo di zuavi pontifici di stanza a Frascati morti per febbri malariche.

In quanto alla bonifica delle paludi dell’Agro pontino sula litoranea laziale, questa si dovette solo alla immigrazione, sollecitata dal regime fascista, di famiglie friulane e venete in quella zona negli anni dal 1926 al 1937 (s.v. R. Visini, Chiesa, società e politica in Agro pontino, Ave, Roma 2008).

Infine non va dimenticata l’epidemia di influenza ‘spagnola’ che solo in Italia causò circa 400mila vittime. Ed ora tocca alla pandemia del coronavirus.

 

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