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Tra Guelfi e Ghibellini

Dicembre 01
15:23 2012

La lotta fra guelfi e ghibellini, ovvero fra sostenitori del papato, come potere temporale, e dell’impero risale al Medioevo ed è un tipico fenomeno di quella confusione di idee e sentimenti che è propria degli italiani, tant’è che non ha diviso soltanto città e comuni (spesso più per opportunismo politico, che per ideologia) ma anche la coscienza di uno stesso individuo, come nel caso di Napoleone Orsini, paradossalmente cardinale e nello stesso tempo ghibellino, nutrendo sentimenti di inimicizia verso Bonifacio VIII in quanto appartenente alla rivale famiglia dei Colonna. Oggi il contrasto guelfi-ghibellini ha assunto le forme più moderne dell’antinomia laico-clericale. L’articolo di Michele Santulli apparso nel numero di Controluce del mese scorso, intitolato Venti settembre 1870, la fine di un mondo, a prima vista può sembrare una provocazione per riaccendere le antiche e mai sopite diatribe fra laici e clericali ovvero fra i neoghibellini e i neoguelfi dell’epoca nostra.

In realtà un’attenta lettura dell’articolo mi ha convinto che, per la sua forma grottesca e ben lontana da quella critica storica, sia stato scritto, al contrario, per suscitare ilarità con uno stile sottilmente ironico, ma tanto sottilmente che qualcuno potrebbe magari prendere sul serio le affermazioni di Santulli. Per scongiurare tale pericolo, mi sono convinto a intervenire sull’argomento con poche ma precise osservazioni, mantenendomi estraneo a partecipazioni emotive anticlericali, alle quali sarebbe fin troppo facile cedere in tali circostanze. Dice Santulli del papato: «Una dominazione, di ciò si trattava, di quindici secoli che aveva affinato le sue armi e, diremmo oggi, la sua governance: era un governo illuminato, considerato e rispettato da tutti gli Stati europei». Illuminato? Rispettato? Più che rispettato era temuto, per la convinzione che il papa ricevesse la sua autorità direttamente da Dio. Fermo restando che non sono invenzioni da anticlericali le “malefatte” dell’Inquisizione, i danni procurati dall’Indice dei libri proibiti allo sviluppo della cultura e del senso morale e civico degli italiani, le guerre di religione che hanno mascherato ben altre motivazioni tutt’altro che spirituali (le Crociate), la strage di duemila Valdesi nel 1562, le migliaia di presunte streghe arse vive, la condanna al rogo di Giordano Bruno, considerato da Giulio Giorello il più grande filosofo italiano, la condanna di Campanella a 30 anni di duro carcere e l’infame condanna di Galileo, padre della scienza moderna. Fermo restando tutto questo e altro ancora, condivido il pensiero di Giordano Bruno Guerri sulle difficoltà di dare un giudizio di merito complessivo sull’influenza della Chiesa nelle vicende dell’Italia, limitandosi pertanto “asetticamente” a constatare che: «È indubbio che la predominanza bimillenaria del papato sulla penisola sia l’elemento più importante nella formazione degli italiani, anche di noi, come siamo oggi. Basta pensare che la Chiesa si sostituì, in molte funzioni all’Impero Romano, che ebbe a lungo il monopolio della cultura e mantenne per secoli un’alleanza difficile ma ferrea con il potere politico». Una cosa, però, è certa: nella bimillenaria storia della Chiesa c’è stato del bene e del male (quanto prevalga l’uno o l’altro è in parte opinabile e in parte “misurabile” attraverso l’esame obiettivo degli eventi storici) ma il suo operato, come istituzione, è stato in gran parte del tutto estraneo allo spirito della predicazione di Gesù come tramandata dai Vangeli ufficiali. Ne sono testimonianza diversi episodi che hanno visto come protagonisti ecclesiastici (anche papi) che hanno tentato di riportare la Chiesa alla purezza dell’antico spirito evangelico delle origini, ma che o sono stati perseguitati dalla Chiesa stessa o hanno avuto misteriosamente una vita breve o hanno rischiato di essere accusati come eretici: per esempio, i papi Pio III (1503), Adriano VI (1522-1523), Marcello II (1555) e Giovanni Paolo I (1978), i cui papati durarono rispettivamente 32 giorni, un anno e otto mesi circa, 20 giorni, 33 giorni, e San Francesco che rischiò l’accusa di eresia. Non è difficile, poi, trovare giudizi nettamente negativi sull’influenza della Chiesa sui costumi, sulla cultura e sullo sviluppo sociale del nostro Paese. Basti citare il giudizio di Machiavelli a proposito degli «esempli rei» sulla corruzione del papato e sugli ostacoli da questo sempre posti all’unificazione d’Italia: «Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo: di essere diventati senza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa» (Il Principe). E Jean -Francois Revel: «La Chiesa si affanna instancabilmente a spegnere tutto ciò che era stato alla base del Rinascimento: libertà intellettuale, libertà morale, curiosità scientifica, gusto della bellezza in se stessa, avidità di godere la vita, ricerca appassionata su tutte le idee. E perviene a soffocare quasi completamente tutto questo». Tuttavia, paradossalmente, molte delle più grandi rivoluzioni scientifiche sono nate in seno alla Chiesa: basti ricordare Niccolò Copernico e fra’ Gerolamo Saccheri, quest’ultimo padre delle geometrie non-euclidee. Molti ecclesiastici sono stati uomini illuminati, di genio e di grande apertura mentale: papa Silvestro II, grande cultore delle matematiche, il cardinale Niccolò Cusano quasi predecessore di molte vedute scientifiche di Giordano Bruno e persino di Einstein, il teologo e matematico Paolo Sarpi che coraggiosamente non esitò a riconoscere che l’Indice fu «il più bell’arcano per adoperare la religione a far gli uomini insensati» e che fu condannato per eresia per aver voluto «ridurre la potestà del papa ad una mera spiritualità». Su mandato della Santa Sede subì due attentati nel 1607 e nel 1609. E si potrebbero citare molti altri, come il sacerdote-patriota Vincenzo Gioberti e l’abate-filosofo Antonio Rosmini che auspicava l’elezione dei vescovi dal clero e dal popolo e di donare i beni ecclesiastici ai poveri. Ma gli scritti di Rosmini furono messi all’Indice proprio da Pio IX e, cosa strana, entrambi hanno in corso il processo di beatificazione.
La grottesca descrizione dei romani sotto il pontificato di Pio IX , data da Santulli, ci restituisce l’immagine di un popolo di imbecilli e fannulloni «senza troppe preoccupazioni e assilli» che pensavano a divertirsi tutto il giorno «quasi sempre assistendo a spettacoli all’aperto di marionette, saltimbanchi, ecc., o in saltarelli e balletti o nel gioco delle bocce e delle carte e della morra, all’osteria» dopo «qualche impegno di lavoro» e «quando liberi da processioni e celebrazioni». È ovvio che il sedicente saggio storico di Santulli è in realtà la bozza di un copione di un nuovo musical stile Rugantino. Non è possibile qui dare una descrizione “storica” esauriente e puntuale della discussa personalità di Pio IX e del suo papato. Mi limito a citare il giudizio di Camillo Benso di Cavour: «Il papa non ha nè spirito aperto nè una grande intelligenza, ma ha invece una fede religiosa profonda». Sull’apparente liberalismo di Pio IX che illuse inizialmente i liberali italiani facendo loro gridare «Viva Pio IX» e sui numerosi suoi voltafaccia che dimostrarono in realtà il suo spirito reazionario (e che portarono a mutare il «Viva Pio IX» in «Accidenti a Pio IX» dopo il divieto del papa di partecipare alla Prima Guerra d’Indipendenza con il suo discorso del 29 aprile 1848), si potrebbero citare molti incresciosi avvenimenti sui quali non è possibile qui, per motivi di spazio, soffermarci. Secondo Santulli, per i romani sotto Pio IX «la regola era la felicità e il benessere per tutti. Roma Felix». Dimentica forse le vicende della Repubblica Romana e che il segretario di Stato della Santa Sede Giacomo Antonelli, dopo l’ingresso dei Bersaglieri a Roma, chiese egli stesso ai piemontesi di occupare anche i palazzi vaticani, perché temeva che potessero essere attaccati dai romani, che quindi tanto felici non dovevano essere. Pio IX si è dimostrato il peggior nemico dell’unità d’Italia e della sua crescita morale e civile. Il maggior danno lo ha recato con la famosa enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864 (più nota come Syllabus), nella quale condannò la democrazia, accusata di distruggere la giustizia e la ragione, condannò il razionalismo, il liberalismo, il matrimonio civile, la perdita del potere temporale della Chiesa. Ed è proprio il Syllabus il principale ostacolo alla beatificazione di Pio IX, il cui corso è stato momentaneamente sospeso. Santulli afferma che l’ingresso in Roma dei bersaglieri il 20 settembre 1870 fu «un episodio della massima violenza e ferocia»: lo stesso re Vittorio Emanuele II tentò fino all’ultimo di evitare l’aggressione scrivendo a Pio IX una lettera nella quale lo scongiurava di abbandonare pacificamente il potere temporale. Ma Pio IX andò su tutte le furie.
Per finire, in uno spirito di cristiana pacificazione, ci piace contrapporre a Pio IX papa Giovanni XXIII, che con il Concilio Vaticano II ha smentito le affermazioni del Syllabus e ha definito il Risorgimento un «disegno della Provvidenza» e «motivo di esultanza».

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1. G. B. Guerri – Gli italiani sotto la Chiesa, Milano, Mondadori, 1995, p. 4.
2. J.F. Revel – Per un’altra Italia, Lerici, 1958.

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