Tra Dante ed Albione
Il De vulgari eloquentia, intorno alla lingua parlata, era un trattatello peraltro incompleto scritto in latino per insegnare ai dotti l’importanza della lingua ‘volgare’.
Lo aveva scritto nel ‘300 un certo Durante Alighiero degli Alighieri, detto Dante, che più di qualcuno nello scorrere dei tempi ha dovuto più o meno malvolentieri incontrare sui banchi di scuola non ancora segati a metà dal covid. Il Dante in questione incuteva una certa paura, non tanto per il naso in primo piano che tante illustrazioni del soggetto venivano propinate a svogliati studenti, quanto per le odiate terzine della ‘Comedia’ che Boccaccio aveva definito ’Divina’ e che un tempo (lontano?) si era costretti a imparare a memoria. Soprattutto il terrore si palesava durante gli esami di fronte all’arcigno prof. che ti flagellava con domande a trabocchetto e che volentieri avresti mandato in quell’Inferno, dove il buon Dante aveva dato una stabile dimora a tanti antipatici personaggi. Eppure era soprattutto il sommo poeta a farci esercitare la memoria e soprattutto ad aiutarci ad imparare la lingua italiana, quando, ancora in tempi recenti, l’italiano era un coacervo di dialetti sparsi per regioni e paesi.
Oggi sembra che la lingua italiana debba essere obbligatoriamente tradotta nell’inglese degli avvisi ferroviari, nelle insegne di qualche rivendita di cianfrusaglierie o di cicorietta, nonostante la Brexit esterofoba! Attualmente ad ogni piè sospinto ci si imbatte in qualche parolina che ti tocca incontrare nel peregrinare tra un negozio e l’altro, o da una di quelle che una volta si chiamavano osterie, alle sale e palestre – che oggi hanno sostituito oratori e benemeriti passatempi – ma quasi tutti ormai rigorosamente nella lingua di Albione (ma poi lo sanno chi era costei?). Anche a livello paesano, fa tanto chic l’insegna in inglese, con buona pace di chi richiama ai ‘sapori’ d’un tempo. In tutto ciò, qualcuno ha creduto bene da tempo che la lingua estera da studiarsi a scuola debba essere necessariamente l’inglese. Ma ci si chiede perché non l’esperanto o, perché no,…il cinese che conta un miliardo e mezzo di persone e che potrebbe essere la ‘Merica’ del futuro prossimo!? E questo non vuol dire non dover imparare le lingue, ma beninteso ‘le’ lingue e non ‘una’ lingua (e qui qualcuno potrebbe forse insinuare anche una certa servitù al…capitalismo imperante, e non è una ipotesi peregrina).
Tra la massa degli studenti che hanno intenzione di trattenersi senza disco orario nel parcheggio scolastico fino alla cosiddetta ‘maturità’ in cui tutti verranno promossi (per cui qualcuno onde risparmiare tempo e denaro suggerisce di dare i diploma direttamente alla nascita dei pargoli), tra una parolaccia e l’altra (è la nuova ‘eloquentia volgare’!), un eloquio gergale e l’altro, la parolina inglese non manca mai. E la lingua italiana?
Questa è snobbata un po’ dappertutto (eccetto che all’estero!). Se ormai ci siamo rassegnati a quei termini entrati ormai in uso quotidiano per computer e cellulari, da altre fonti di divulgazione ‘culturale’ ci si aspetterebbe un linguaggio più vicino a chi in Italia ci vive e lavora e…compra. Ora invece, su quasi tutti i quotidiani ogni articolo ha perlomeno un richiamo esterofilo: podcast, coldcase, dataroom, e, per girare l’Italia della sostenibilità, c’è il ‘the circular tour’! In questi giorni un titolo di giornale sul 150° della breccia di Porta Pia (e quindi dell’Unità d’Italia!) portava questo richiamo: ‘longform’!
E pensare che per far adottare una lingua comune agli italiani, dal marasma di dialetti esistenti, ci sono voluti cent’anni. Anche tra i bersaglieri della ‘breccia’ si andava dal dialetto piemontese al siculo, tanto che uno di essi confessò tanti anni dopo che non aveva capito bene perché fosse andato all’assalto! Lui aveva solo seguito gli altri che correvano! Chissà che non capitasse anche a noi prima o poi di obbedire e seguire qualcuno di cui non conosciamo quel che ci ‘ordina’!? In televisione sembra ormai che non debba esserci programma ‘nostrano’ (oltre quelli esteri) che non abbia un titolo anglo-americano. Fa tanto chic, magari con qualche ‘influencer’!
Gli attuali politici, alcuni notoriamente scialacquatori, hanno però abbracciato la povertà della lingua italiana, nel senso dell’uso di pochi termini e spesso impropri, e così in questi anni hanno riversato sulla popolazione un effluvio di inglesismi per ogni legge e circostanza incapaci di trovare (ma non le hanno mai cercate) parole adeguate in italiano! Un anno fa andava di moda il ‘navigator’, cioè quello che avrebbe dovuto trovare un lavoro per i richiedenti il reddito di cittadinanza. Sappiamo come è finita. E in questi giorni si sprecano le election day. In questi mesi alla pandemia del coronavirus si è aggregata quella di tutti quei termini di cui ci hanno fatto omaggio esperti, politici, sanitari e quant’altro mentre il virus continua a propagarsi senza essere stato ancora bloccato.
Ed ora in attesa che si celebri in pompa magna il centenario dantesco, (sperando non si risolva in una pletora di cerimonialismi) non ci resta che – sempre rispettando le distanze ‘sociali’ – avventurarci in giro, anzi in ‘tour’, tra i luoghi ameni (pardon, ‘location’!) di ville e boschi (i pochi non incendiati) nonché tra le dimore nobili d’un tempo. E, dal momento che la pandemia c’è ancora, insieme a Dante non sarebbe male leggersi anche il Manzoni che sul tema ne dovrebbe aver scritto qualcosa. (E in attesa del…covidfree!!!).
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