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Tornare a teatro e perché: il punto di vista di Daniel Pennac

Tornare a teatro e perché: il punto di vista di Daniel Pennac
Giugno 16
09:24 2021

Molte ferite ha subito qualsiasi forma di aggregazione sociale a causa delle tensioni e poi della pandemia che hanno attraversato e attraversano da anni la nostra società (la pandemia ha potuto di più del terrorismo ormai diffuso in gran parte dell’Europa) ma teatro, cinema, concerti, balletti, hanno pagato un prezzo alto perché considerati anche meno importanti, in una eventuale scala di necessità, dell’abitudine diffusa d’incontrarsi consumando cibo e bevande nei locali pubblici, forse perché queste forme di fruizione culturale sono considerate davvero in fondo ad una eventuale scala di importanza fra le cose necessarie. Ma la loro importanza è provata perché fruire assieme messaggi più o meno complessi invita alla conversazione, al confronto continuo, contribuisce alla crescita delle persone. Non ultimo, fra gli spettacoli, ha incontrato molte difficoltà il circo: uno alle porte di Roma, dopo un anno di stop forzato, chiedeva aiuto non per gli artisti ma cibo e lettiere fresche per gli animali (non sarà questo il momento di fare discussioni animaliste, intanto se un animale c’è occorre accudirlo al meglio…). Questi passi tratti da Mio fratello dello scrittore francese Daniel Pennac, permettono di reimmergersi nell’atmosfera viva del teatro, lo fanno cercando le presenze. Né vecchie tavole, né polvere, ma vita vissuta e scambio fra le persone; fra queste e gli attori, fra il pubblico e la storia: conoscersi, riconoscersi, emozionarsi, andare a guardare cosa c’è dietro il sipario… Qui è l’autore, ed unico attore in scena, che descrive ciò che vede, che sente, gli ‘umori’ della sala, quasi un corpo unico fatto di parti distinte che risponde al testo e ‘fa’ una parte dello spettacolo…

«(…) Sul fondo della scena, un drappeggio bianco rifletteva la luce permettendomi di vedere il pubblico. Vedevo benissimo tutti, nelle loro poltrone, e questo faceva di me lo spettatore della pièce che mi recitavano, sempre uguale e sempre diversa ogni sera. Uscivano dal lavoro. Venivano a sedersi qui, in questo teatro, alle sette di sera, per ascoltare una lettura. (I manifesti lo presentavano così, lo spettacolo di Bartleby di Herman Melville, lettura scenica). Quasi tutti erano stanchi. Si capiva già dal brusio mentre prendevano posto, diffuso da un altoparlante nel mio camerino. E dal palcoscenico si vedeva. Era una stanchezza da uffici, da negozi, una stanchezza di insegnanti, di medici, di impiegati, di giornalisti, di persone che avevano avuto a che fare tutto il giorno con altre persone. Che avevano subìto l’agitazione frenetica della città. Era una stanchezza parigina. In provincia, era una stanchezza diversa: andavo in scena alle ventuno, gli spettatori avevano cenato, venivano in famiglia. A volte, complice la digestione, i più anziani si addormentavano. Io badavo a non svegliarli, cercando però di non fare addormentare gli altri. C’è una forma di fiducia nell’assopirsi a teatro. Non è un segno di grandissimo interesse per il testo, è vero, ma significa mettere il sonno sotto la protezione di una voce. Un piacere regressivo che anch’io mi concedo con una certa frequenza.

Al primo rifiuto di Bartleby, dunque, il pubblico rideva. Per quanto io attenuassi la comicità della situazione, la frase Preferirei di no, contrapposta all’ordine perentorio di un datore di lavoro, suscitava l’ilarità degli spettatori. Si schieravano. Forse ridevano contro le concessioni all’autorità che loro stessi avevano fatto quel giorno. (…)

In teatro, la sala è la cassa di risonanza della scena. Attori e spettatori recitano gli uni con gli altri (o contro gli altri, a seconda dei casi). Non è semplice diventare uno spettatore. Lasciare andare in così poco tempo una professione, una famiglia, una giornata di lavoro, una città, una vita, un bagaglio di punti di riferimento, di consuetudini e di norme… I cappotti che non si sa dove posare, il fruscio dei giornali ripiegati alla bell’e meglio, i programmi consultati ad alta voce, le chiacchiere che non finiscono mai, i cellulari spenti sempre fuori tempo massimo, i ritardatari impegolati nelle loro scuse, le poltrone che sbattono, i corpi che si lasciano cadere, i cigolii di assestamento, tutto il trambusto del pubblico che si sistema in sala è la lenta sottomissione degli spettatori alle esigenze dello spettacolo. Sembra quasi la cacofonia degli strumenti nella buca dell’orchestra prima dell’ingresso del direttore. Quando finalmente la luce in sala si abbassa e poi si spegne, e si pensa di essersi accordati al silenzio di tutti, ecco che allora subentrano i corpi. D’inverno sono gli starnuti e la tosse, d’estate è il fastidio per il caldo, cui si aggiungono, tutto l’anno, i cellulari non spenti e – forse più fastidioso ancora – il concerto indignato delle proteste.

Far sì che le persone tacciano è una cosa da nulla. Il più delle volte è sufficiente la presenza degli attori. Ma far tacere una tosse, conquistare i corpi al punto che le poltrone non scricchiolino più è il miracolo del testo. (…) Primi sintomi dell’attenzione, le risate sostituivano ben presto i rumori del corpo. Si propagavano da un focolaio iniziale, seguendo percorsi aleatori in funzione della collocazione delle altre risate nella sala. A volte i focolai erano così numerosi che la risata incendiava tutto il pubblico contemporaneamente (…). A volte le risate erano troppo isolate, circondate da spettatori attenti, più introversi o semplicemente indifferenti. Erano allora soffocate dal silenzio. Ma risate c’erano, comunque, a ogni rappresentazione.

Ho pensato spesso che avrei voluto stilare la nomenclatura di quelle risate che tanto mi dicevano sulla nostra umanità. Risate militanti, risate di sorpresa, risate scandalizzate, sorrisi d’intesa, un’intera gamma di risate e di sorrisi accompagnava lo scorrere del testo finché nessuno rideva più e un silenzio definitivo invadeva la sala per accompagnare il notaio verso le sue ultime parole: Ah, Bartleby! Ah, umanità!»

Da Mio fratello, Daniel Pennac, Feltrinelli

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