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Tomasi di Lampedusa, Pasolini, Moravia, Umberto Eco

Tomasi di Lampedusa, Pasolini, Moravia, Umberto Eco
Febbraio 29
16:26 2016

Considerazioni domenicali

A diversi critici letterari – ed io sono con essi – risulta che i quattro più famosi scrittori italiani nella Penisola e all’estero, a livello di iniziati e di popolo, relativi alla seconda metà del Novecento, siano quelli del titolo. Se però prendiamo in considerazione solo i selezionati per lettori forti, esce fuori anche Italo Calvino, sempre a livello internazionale (o, almeno, americano). Se invece puntiamo alla tiratura dei libri, dobbiamo fermarci all’Italia e perderci in un bailamme di autori fluttuanti nei gusti della moda e dei premi, pompati dalla tv e dai rotocalchi, dalle recensioni prefabbricate e dalla fortuna (o dai poteri delle camarille…).

Io parlerò solo, a mo’ di excursus domenicale (e, infatti, oggi è domenica), con tutti i significati che l’aggettivo comporta, compresi quelli della leggerezza festiva e del divertimento (come i pittori e gli scrittori della domenica, beninteso che fra questi ultimi c’è stato pure un certo Pirandello), parlerò – dicevo – unicamente dei quattro che hanno riempito il mondo artistico per poco o per molto, ma in maniera totale: Tomasi di Lampedusa, Pasolini, Moravia ed Eco.

“Il Gattopardo”, come ben sappiamo, è stato bocciato da Elio Vittorini e scoperto da Giorgio Bassani (nulla di nuovo sotto il sole: anche il meraviglioso Proust fu stangato e rifiutato da André Gide, che, da intellettuale onesto, non si perdonò mai quell’errore madornale; pure Italo Svevo fu respinto da tutti gli editori italiani contattati etc.). Fu pubblicato dopo la morte dell’autore e risulta un unicum (tranne qualche pagina sparsa). Fu un successo internazionale, raddoppiato dal magnifico film di Luchino Visconti. Molti esegeti e storici della Letteratura intuirono il motivo di tanto clamore: si metteva una pietra tombale sul Neorealismo, che copiosamente aveva prodotto nel cinema, bensì poco nel romanzo. Tuttavia, il successo non si spiega mai completamente. Affermava Moravia: “Una cosa ha successo perché ha successo” (riferendosi al film di Bertolucci “Ultimo tango a Parigi”).

Lampedusa si legge e rilegge sempre volentieri: agile, profondo, nuovo, anche se certe atmosfere fanno pensare al capolavoro di Federico De Roberto “I Vicerè”, uno dei veri romanzi più alti dell’Ottocento. Comunque, essere legati a un solo libro restringe le occasioni di dibattito, né la vita di Tomasi ha dato adito a polemiche e battaglie come quella di Pasolini, il cui quarantennale dalla morte ha fatto dimenticare altri notevoli autori deceduti lo stesso anno (ad es. Carlo Levi), accentrando su di sé un’attenzione forse eccessiva. Ed essa non accenna a diminuire: anzi, Pier Paolo sta emergendo sempre più sugli altri suoi contemporanei, altrettanto validi sul piano narrativo e forse di più (Primo Levi, Bassani, Morante, Domenico Rea, Buzzati etc.), ma egli rappresenta un’epoca, è lo stendardo coraggioso (fino all’ostentazione) del diritto dell’omosessualità ad essere riconosciuta come forma naturale e storica (i precedenti sono numerosi, se  si pensa al genio di Oscar Wilde, molto diverso da Pasolini nella vita, perché Oscar ha amato fortemente il suo crudele compagno, scontando il carcere senza colpa né peccato e scrivendo, in ceppi, una delle opere più alte della letteratura del XIX secolo: “De profundis”, ma pure Pier Paolo ha firmato il “Vangelo secondo Matteo”, di cui non s’era visto l’eguale per altezza poetica e intensità religiosa). Dicevo: Pasolini è lo stendardo coraggioso d’un periodo buio, forse un po’ unilaterale nel suo bersaglio (la DC e il consumismo) e altrettanto unilaterale nell’indicare il bene solo nel PCI (quando questo non governava: ha una scusante). Ha invaso molti campi della vita e della società, della letteratura e del cinema, della polemica (sempre originale e scomoda, coraggiosa ripeto). Insomma, ha riempito di sé un quarto di secolo, ma ciò non giustifica la popolarità mondiale che ancora lo segue, perché anche Curzio Malaparte fu al centro dell’attenzione per molto tempo pure nella critica politica e nel trasformismo tipico degli italiani, ma non se ne parla più. Pasolini era un poeta che ha dato nel cinema le sue cose migliori, e nelle battaglie civili il suo impeto magnanimo sebbene talvolta discutibile: è stato, per certi aspetti, un profeta, e i profeti vengono uccisi (lo abbiamo visto – lui stesso se l’era immaginato – in “Uccellaci e uccellini”, la fine che fa il corvo dopo tanto ammaestrare i due viandanti). Pier Paolo, come usavo chiamarlo confidenzialmente, ha anche statuito, prevedendola, la fine dell’ideologia: e questo non è poco per un comunista convinto, a quei tempi poi!

La fama di Moravia fu immensa in vita, anche se non mancarono sempre più numerose  ostilità contro la sua scrittura ripetitiva, da impiegato del romanzo. Ma era ormai il simbolo della nuova Letteratura, iniziata con “Gli indifferenti”, eccezionale se si pensa che lo ha scritto giovanissimo. La pubblicazione risale al 1929, l’autore ventiduenne, con Alpes, l’editrice di Arnaldo Mussolini, e gli costò 5.000 lire (di allora). Lo lesse il Duce, dicendo che era scritto male ma che gli rivelava una Roma sconosciuta. È che Moravia ha insistito troppo sulla borghesia, ripetendo sempre lo stesso tema, sicché egli è lo scrittore di un solo lunghissimo romanzo, dal quale emerge, per bellezza, “Agostino”, sebbene io ritenga suo capolavoro i “Racconti romani”: spiritosi, comici, rappresentativi di una Capitale e di un tempo ritratti con gusto, inventiva, stile compatto e occhio anche alle cose del popolo minuto. Pure Moravia ha inciso sulla visione politica e sociale, sebbene con minore efficacia di Pasolini e, forse, con momenti di ripetitività non rari in lui. Dopo la morte, la sua rinomanza si è fortemente affievolita: questo è un segno eloquente d’una fama in vita eccessiva e legata al momento politico.

Umberto Eco è mancato al mondo da troppo poco tempo per permetterci un’analisi dei “posteri” ancorché prossimi. Certo, in vita ha riempito della sua presenza intelligente e perspicace dapprima gli ambienti iniziati, poi, con il successo planetario del romanzo (vero autentico romanzo, con tanto di trame e personaggi potenti e pensiero sotteso a ogni situazione) “Il nome della rosa”, ha investito il popolo, specie dopo il film omonimo.

Ho conosciuto tre dei protagonisti di cui parlo, eccetto Lampedusa. Ma al presente articolo è inutile ogni mio ricordo personale. Voglio solo dire che Umberto Eco – a differenza di Moravia, non so di Tomasi – possedeva un’erudizione, una cultura smisurati, un’intuizione dei nuovi tempi e delle nuove tecnologie in “avanguardia”: ogni sua riflessione, articolo, libro possedevano sempre qualcosa di inusitato, mai banale (la banalità, che è la regola del successo oggi, non ha mai sfiorato Eco). Solo che, tolto “Il nome della rosa”, qualunque altro cosiddetto romanzo è opera di pensiero ed erudizione espressi in modo pesantissimo (sebbene interessante come fosse un filosofo un poco oscuro ma ricco di risorse). Il ricercatore di particolari curiosi e il pensatore prende il posto del narratore, in cui viene sempre a galla la vocazione di Eco docente, dal fiuto infallibile per rare opere piene di meraviglie sconosciute, sicché il lettore deve fare uno sforzo per proseguire nelle pagine e spesso abbandona il testo a metà se non all’inizio). Tuttavia, un romanzo bello e riuscito c’è. Se Lampedusa vive per un solo libro, Eco ne ha scritti di più, e “Il nome della rosa” si pone fra le opere più importanti del secondo Novecento, sebbene personalmente (e credo che lo facciano tanti ammiratori di Eco professore interessantissimo) io rilegga i suoi saggi e, per ultimo, sto terminando uno sfizioso libro di ricerca di rarità, come “La memoria vegetale, e altri scritti di bibliofilia”, Ed. Rovello, Milano, in cui l’attenzione del lettore specialistico viene catturata meglio che da “Il pendolo di Foucault” e altri volumi definiti romanzi quando romanzi non sono.

Conclusione.

I quattro a cui ho accennato, sono comunque storicizzati, cioè stanno nella storia della Letteratura. Oggi la situazione è diversa: non è possibile storicizzare alcun autore, neppure quelli che vincono i premi e vendono milioni di copie. Ecco i motivi: scrittori e poeti sono in soprannumero, per cui la già intasata autostrada delle Lettere è ormai bloccata, ferma, non  scorre più. E questo mette i critici (che sono quelli ai quali è demandato il compito della scelta per i posteri) in condizione di non poter esaminare tutte le opere che l’Italia – Terra di santi e di poeti – sforna copiosamente senza selezione più. Prima esisteva la buona tradizione delle stroncature (potevano prendere abbagli, ma comunque aiutavano setacciando l’immondizia anche se di gran consumo); oggi è tutto prefabbricato: vietata la critica, perché i giornali non la pubblicano, in quanto ognuno ha dietro un editore e poi gli autori sono – come dice Orazio – ombrosi e si vendicano, per cui è meglio usare il furbo “do ut des”; le recensioni sono tutte uguali perché viene copiata, o maneggiata, per pigrizia, la scheda di lettura dell’ufficio stampa dell’editore potente. I premi non danno affidamento, per motivi di monopolio industriale. Gli editori neppure. Io ricordo che Armando selezionava “ferocemente” il prodotto, indipendentemente dalla fama dell’autore; oggi i grandi industriali del libro seguono altri criteri, quelli commerciali: il romanzo si fa a tavolino con l’autore e l’editing in base alle richieste del gusto popolare. I critici si disorientano. Neppure le cifre delle vendite sono un’indicazione utile, perché i volumi che vendono di più sono quelli mediocri. I migliori non trovano spazio, vuoi per l’assenza dei giudici ritiratisi sull’Aventino, vuoi per le manipolazioni del potere “letterario-economico”, vuoi per i maneggi degli autori potenti, noti in qualche campo che non sia la Letteratura. Tanto poi, opere valide o immondizia, dopo tre mesi vengono cancellate per necessità di produzione, a causa di quel demone che Pasolini chiamava consumismo. Quale critico o storico della Letteratura può, umanamente parlando, leggere tutti i libri che si sfornano in Italia (non dico nel mondo: sarebbe pazzesco)? Prima – e si stampava meno – ci si regolava in base alla selezione fatta dalle “grandi Case”; oggi esse operano con criteri diversi, come la tv che segue l’indice di gradimento piuttosto che quello di qualità (le cose più interessanti le pubblicano gli editori medi o minori). I premi sappiamo come vanno. Le tirature sono un segnale negativo (tranne rari casi) perché vuol dire che il libro asseconda i gusti facili, data anche la velocità che non permette di studiare un lavoro (i testi più sono originali e più richiedono anni per essere compresi): perciò ormai ci si basa sulle vendite, sia per trarne dei film o degli sceneggiati televisivi, i quali risultano spesso migliori dell’opera uscita in carta stampata (come, un esempio per tutti, “Venuto al mondo” della Mazzantini).

Insomma, in questo scenario, si tornerà al ‘manoscritto’ fatto girare nella cerchia di pochi amici (ovvero divulgando in rete, a quelli che riteniamo più attenti e che ancora sanno leggere, i nostri “sfoghi” e le nostre “ricerche”). Il vero autore – quello che non si piega al dettato di bottega e non cerca di apparire a tutti i costi, anche vendendo il suo pensiero – sarà costretto a operare in clandestinità.

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