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Sviluppo o decrescita? Verso la conferenza di Venezia…

Agosto 16
13:30 2012

Si terrà a Venezia dal 19 al 23 settembre la conferenza internazionale sulla decrescita (www.venezia2012.it). Casualmente tale evento segue, a tre anni esatti di distanza, un analogo convegno dal titolo Parliamo di Ambiente, organizzato dal “Centro per la Filosofia Italiana” di Monte Compatri, nell’ambito del ciclo di incontri “La nottola di Minerva”, che aveva anch’esso come tema principale il problema della decrescita. In realtà, appena tre anni fa, un incontro come quello tenutosi a Monte Compatri nel settembre 2009, ai più, poteva erroneamente apparire come uno sterile e bizzarro esercizio intellettuale, senza riflessi immediati sulla nostra realtà quotidiana. Ad oggi, invece, alla luce della crisi socio-economica in atto e degli interrogativi che essa pone, offre innumerevoli spunti di riflessione nel tentativo di fare il punto sulla situazione.

Del resto è sufficiente osservare le dichiarazioni-slogans pressochè quotidiane dei principali protagonisti della scena mondiale, siano essi politici, tecnocrati, sindacalisti, industriali e comunque opinion leader, per rimanere colpiti dalla convergenza, seppure con sfumature diverse, verso la indispensabile necessità dello sviluppo economico: «…riprendere la via maestra dello sviluppo»; «…bene il rigore, ora lo sviluppo»; «…senza sviluppo a rischio le finanze pubbliche mondiali»; «…senza sviluppo emergenza disoccupazione»; ecc…
Solo pochi mesi fa, in uno dei tanti salotti-bene delle reti televisive Rai e Fininvest, il politico di turno, nel caso specifico Emma Bonino, affermava con dogmatica certezza che nessun politico di buon senso metterebbe al centro della propria agenda un programma di decrescita economica.
A questo punto, viene spontaneo domandarsi il perché di tanta ossessione sviluppista e soprattutto, se abbia un senso parlare di decrescita. Innanzitutto, cosa è la decrescita?
Decrescita ed economia
Riguardo il significato del termine vale la pena di soffermarci sulla definizione proposta da uno dei maggiori teorici della decrescita, il pensatore ed economista francese Serge Latouche:
«A rigore, più che di de-crescita bisognerebbe parlare di “a-crescita”, così come parliamo di “a-teismo”, poiché si tratta di abbandonare una fede ed una religione: quella dell’economia, della crescita, del progresso e dello sviluppo» (La scommessa della decrescita, ed. Feltrinelli, 2009).
Lo stesso Latouche, utilizza un’immagine suggestiva, quella di “decolonizzazione dell’immaginario”, quasi a significare, addirittura, un graduale processo psicologico collettivo di ristrutturazione cognitiva, volto a smussare i pensieri disfunzionali che limitano un beninteso senso di libertà in sintonia con la natura più profonda, non economica, dell’essere umano. Non si tratta di una “dottrina”, di una teoria economica identificabile in politiche pubbliche ben precise e di immediata implementazione (messa in opera). Lo scopo della decrescita (come dichiarato dagli organizzatori della conferenza di Venezia) è, piuttosto, quello di rompere un tabù – la religione della crescita e la dittatura del PIL e dei mercati – e di avviare una discussione. In un certo senso, coerentemente con i paradigmi correnti dell’Economia, la decrescita è un non senso economico. È, piuttosto, un percorso di uscita dall’Economia, una uscita di sicurezza, prima che il modello di sviluppo economico paranoico che abbiamo abbracciato (chiamiamolo pure neoliberista) ci travolga definitivamente. Del resto, con buona pace degli economisti, l’uomo appartiene alla specie sapiens sapiens e non certo a quella dell’homo oeconomicus, che null’altro è che una finzione riduttiva e limitante, una mera invenzione dell’intelletto umano. Purtroppo, la dimensione del consumismo sfrenato, sembra aver ridotto ogni capacità di analisi critica della realtà contemporanea. Tanto per fare un esempio, nessuno ormai si meraviglia più che venga dato per scontato che per frenare la crisi economica in atto bisogna sostenere la domanda (in buona sostanza i consumi), altrimenti diminuisce l’offerta, cioè la produzione. Il che, a ben vedere, pur coerente con la logica economica corrente, è di fatto una assurdità. Sarebbe come a dire che non produciamo per il legittimo consumo di beni materiali ormai indispensabili per il nostro benessere, ma dobbiamo, al contrario, necessariamente sempre e solo consumare per produrre. In termini di antica saggezza popolare, sarebbe come a dire che non mangiamo per vivere ma viviamo per mangiare.
Nel moderno Stato liberaldemocratico, non siamo più sudditi ma cittadini o, forse, semplicemente consumatori? A proposito del deficit di sovranità di cui si parla tanto in questi giorni di governo tecnico, come non rimanere meravigliati se ovunque è possibile sentire la voce del rappresentante dei consumatori, mentre la voce dei cittadini viene quasi sempre disattesa? Inoltre, il consumismo ha ormai invaso campi che non gli dovrebbero strettamente appartenere. A riguardo di ciò, tanto per fare un altro esempio, sempre nei soliti salotti-bene della TV italiana, non è difficile imbattersi in qualche imbonitore che ci parla serenamente, senza mezzi termini, di consumo di programmi televisivi. Ora, fino a prova contraria, la televisione si guarda, non si consuma. O forse tale raffinata logica sottintende che dobbiamo correre in un centro commerciale ad acquistare l’ultimo modello di televisore a schermo piatto (con gli ultimi modelli, mi dicono, Sky offre anche il servizio on demand: arrivi a casa, ti siedi, scegli il programma indipendentemente da ogni palinsesto televisivo e consumi). Evviva la sovranità del consumatore.
Vale la pena di rileggersi il discorso che Bob Kennedy tenne nel marzo del 1968:
«Il Pil contiene l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgomberare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. Contiene programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari (…) Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Down-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto nazionale lordo (…) Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.»
Peccato che il progresso dell’umanità non è lineare. Circa quaranta anni dopo, il presidente degli USA G.W. Bush, ha affermato pubblicamente che lo stile di vita americano non è in alcun modo negoziabile. In Italia, invece, alla Bocconi di Milano, tanti intellettualismi romantici non sono di casa e l’ex Rettore Mario Monti, oggi Presidente del Consiglio in carica, ha addirittura, battezzato il suo principale provvedimento di finanza pubblica con il termine, mediaticamente trendy, “Cresci Italia” (non vogliamo nemmeno immaginare come lo avrebbe battezzato il precedente Presidente del Consiglio). (continua nel prossimo numero)

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