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Sviluppo economico e benessere sociale

Sviluppo economico e benessere sociale
Settembre 01
02:00 2006

Disboscamento nella Columbia Britannica (aprile 2005)In biologia gli organismi crescono, si sviluppano, poi iniziano il declino ed infine muoiono. Ma in economia quale evoluzione seguono gli organismi economici? Non certo quella degli organismi naturali, e tanto meno quella della crescita infinita su un pianeta che infinito non è. Si dice sempre più spesso che le società umane, organizzate economicamente, dovrebbero ritrovare il legame con la natura, che è stato rotto, se vogliono garantire la loro sopravvivenza sul pianeta. Il pil, prodotto interno lordo, è una misura utilizzata per valutare la ricchezza di uno Stato (in riferimento alla produzione di beni e servizi in un determinato periodo), ma nulla ci dice sulla distruzione della natura per produrre tale ricchezza. Per fare un esempio, se viene tagliato un milione di ettari di bosco per farne mobili, se da un lato si ha una crescita del pil, dall’altro lato si ha un grave danno all’habitat, perché la conseguente riduzione di ossigeno nell’aria produce minore salute nell’uomo. Dunque il pil non è una misura che dà il grado di salute e di benessere reale della società, in quanto l’inquinamento ambientale e le malattie non rientrano nel calcolo dei costi della produzione di beni e servizi. Si è potuto constatare, infatti, come l’aumento costante dei livelli di inquinamento ambientale, creato dalle attività dell’uomo, stia sviluppando nuove malattie che finiscono per incidere anch’esse sull’economia dei Paesi, tramite la spesa sanitaria pubblica.
Oggi i politici appaiono al servizio dell’economia delle grandi imprese e dell’alta finanza, nel momento in cui parlano esclusivamente di economia di mercato concorrenziale e di competitività dei prodotti, staccate dagli interessi globali della comunità. Quando si sostiene, ad esempio, che la competitività della Cina e la globalizzazione del mercato esigono che si prolunghino nuovamente gli orari di lavoro e che ci sia più flessibilità, si prospetta alla società dei lavoratori un regresso e non un progresso. Qui l’essere umano scompare per far posto al prodotto del suo lavoro, che deve costare sempre meno per essere più competitivo sul mercato. Precarietà e flessibilità del lavoro comportano quindi la totale mercificazione del lavoro. Dal punto di vista dei lavoratori si deve concludere che bene hanno fatto i francesi a bocciare il trattato costituzionale dell’Unione Europea, perché contemplava l’accettazione della competizione come regola su cui fondare l’Europa. Così pure bene hanno fatto i giovani della Francia (appoggiati dai sindacati) a rifiutare recentemente con tenacia il contratto di primo impiego, che equivaleva ad andare incontro a pesanti forme di precarietà del lavoro.
La tendenza generale in Europa è di andare verso la progressiva riduzione di tutte le protezioni sociali; in Italia, poi, il contratto a tempo indeterminato ha finito per diventare un qualcosa di riservato a pochi privilegiati, mentre il lavoro discontinuo e precario riguarda già più di tre milioni e mezzo di persone.
Gli ‘ammortizzatori sociali’, cioè la creazione di reti di protezione sociale per tutelare le persone dai rischi del lavoro instabile, proposti dai nostri politici, sono in realtà costosi ed inutili per la società. Meglio sarebbe ridurre al massimo il cosiddetto lavoro atipico e ridare dignità e professionalità al lavoratore. Perché la flessibilità del lavoro (che si realizza con contratti di breve durata ed a scadenza predeterminata) può essere dannosa non solo per il lavoratore (sempre più insicuro e stressato), ma anche per l’impresa, che non ha alcun interesse ad investire in formazione professionale su persone che dopo tre o sei mesi non ci saranno più.
In questo quadro sconsolante va ricercata invece un’etica nell’economia politica e questo compito va affidato all’economista, come è stato nel Settecento.
Herman Daly, che è stato economista della Banca mondiale, ha sottratto dal pil, prodotto interno lordo, le ‘spese di compensazione e di riparazione’ (ad esempio le spese per andare in montagna a respirare aria pura, le spese per il disinquinamento dei terreni inquinati dalle fabbriche, ecc.) per creare un indicatore del vero benessere sociale. I suoi studi hanno dimostrato che, per i Paesi più sviluppati, l’andamento del pil, come indicatore della crescita economica, messo a confronto con l’andamento dell’indicatore del benessere sociale (ricavato come sopra) sono andati di pari passo fino ad un certo punto, oltre il quale è accaduto che mentre il pil ha continuato a crescere, l’indicatore del benessere ha iniziato a diminuire.
Insomma sembrerebbe proprio che la crescita economica così com’è congegnata stia creando dei problemi al pianeta. Lo stesso progresso tecnico, che si è basato sulla predazione della natura, ed in particolare delle energie fossili non rinnovabili (prima il carbone, poi il petrolio) per continuare ad esserci ha dovuto ampliare lo sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi del Sud del mondo.
Inoltre, tutto il processo di crescita e di sviluppo economico è diventato un processo di mercificazione che ha coinvolto anche le relazioni umane. Infatti, per vendere sempre più merci si è dovuto convincere la gente a consumare maggiormente e ad avere sempre più bisogni. Si calcola che oggi meno del 20% della popolazione mondiale consuma l’87% delle risorse del pianeta. Ha scritto l’economista francese Serge Latouche nel suo libro ‘L’altra Africa’, che se tutti gli abitanti del mondo vivessero come gli americani (data l’affermazione di Bush-padre che il tenore di vita degli americani non è negoziabile) ci vorrebbero non uno, ma sei pianeti.
Questo aumento dei consumi, unito alla globalizzazione, ha portato i prodotti ad incorporare sempre più risorse naturali negli angoli più remoti del mondo. Per fare un esempio, per un francese degli anni Sessanta la carne che era sul suo piatto era allevata sui prati della Normandia con l’erba naturale, oggi invece è nutrita con la soia che viene dal Brasile, mescolata con farine animali, che hanno finito per rendere ‘pazze’ le mucche! Questo vuole dire anche che i brasiliani della foresta amazzonica hanno visto le multinazionali distruggere la loro foresta (fondamentale polmone verde del pianeta) per coltivare unicamente la soia, oltre che per vendere gli alberi asportati. In questo modo si va a distruggere però un patrimonio naturale ricco di biodiversità, che costituisce per gli stessi autoctoni un’economia locale molto importante. Con le piante del luogo, infatti, si producono medicine naturali (ed oggi persino farmaci per i Paesi sviluppati) oltre che ottime bevande dissetanti, curiosità per i turisti stranieri.
La risposta a queste problematiche sembra venire oggi dagli economisti francesi impegnati a lavorare ad un programma politico concreto in vista delle elezioni presidenziali del 2007. Due le idee di fondo. La prima è che a pagare i danni ambientali debba essere non più lo Stato (cioè i cittadini anche delle future generazioni) bensì chi inquina. Addirittura si potrebbe pensare – essi sostengono – ad istituire delle ecotasse a livello mondiale, che gli Stati dovrebbero applicare. Questa proposta è stata chiamata ‘internalizzazione degli effetti esterni’, che pone però la questione del governo globale. Cioè gli accordi a livello internazionale non sempre vengono rispettati da tutti gli Stati, che spesso appaiono senza una vera consapevolezza dei rischi cui si va incontro con questo tipo di crescita economica. Ricordiamo che il protocollo di Kyoto non era stato firmato dagli Stati Uniti: tale accordo si prefiggeva l’obiettivo mondiale di ridurre gradualmente le emissioni di gas serra, responsabili del buco nell’ozono.
La seconda idea che viene dagli economisti francesi è la ‘rilocalizzazione delle attività produttive’ che deve portare ad una de-globalizzazione.
Si continua ad insistere erroneamente – dicono gli economisti – che il problema della povertà del Sud del mondo sarà risolto aumentando la crescita dei Paesi più sviluppati. Un errore, questo, già dimostrato dagli studi della Banca mondiale e dell’ONU. Invece, solo frenando la deforestazione e la distruzione della biodiversità si metterebbero i Paesi poveri e sfruttati nelle condizioni di rompere la dipendenza economica e culturale dal Nord del mondo, e di ricondurre contemporaneamente la loro economia nel quadro degli interessi della comunità.
Questa ricerca dell’etica nell’economia politica è quanto c’è da auspicare anche nel nostro bel Paese, dove la distruzione del Verde per fare posto alla cementificazione del suolo a fini di lucro, non solo sta portando ad una diminuzione del benessere, ma anche ad una diminuzione di ricchezza di quanti si vedono aggredire sempre di più da nuove soffocanti abitazioni.

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