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SU  LEOPARDI

Agosto 25
12:24 2024

Non credo che dopo la scuola si legga ancora Giacomo Leopardi nell’intimità della propria casa. Lo penso perché alcuni versi del grande poeta e pensatore, ripresi da cantautori odierni, vengono creduti creati da costoro. Nonostante la proliferazione di scrittori e soprattutto poeti, in Italia, la lettura dei classici è cosa relegata agli studi regolari. Se si parla tanto di Dante fuori delle aule, è perché egli rientra ormai anche nella moda, discorrere di lui fa tanto “in”, ma leggerlo è altro discorso.

Perché accenno a Leopardi? Per una curiosità.

Egli è stato sempre descritto come un uomo depresso, per cui il suo pensiero piuttosto cupo sulle sorti dell’umanità sarebbe stato causato dalla sua gobba e dallo stato d’animo affetto dalla terribile malattia della depressione. Però, alle sue stesse conclusione è giunto un suo contemporaneo, Schopenhauer, il quale non era per nulla toccato dal male oscuro, e Lord Byron, frizzante cavaliere  coronato dalla gloria in vita. Schopenhauer scrisse che in Eurppa vi erano i tre più grandi pessimisti dell’epoca (lui, Byron appunto e Leopardi), ma non si erano mai incontrati. Il filosofo tedesco lesse le “Operette morali” del nostro Giacomo venti anni dopo la morte del Recanatese e ne tessé le lodi. Ma l’occasione di questo breve articolo mi è data da una combinazione di pareri di due intellettuali che non si sono mai incontrati: Domenico Rea, splendido scrittore morto più di trent’anni fa, e il dantista Giulio Clamer, più giovane di me. Entrambi, senza essersi mai consultati, usano per Leopardi una parola che è la più adatta a definire la realtà del suo pensiero. Rea mi disse più di quarant’anni or sono: “Nessun uomo ha mai parlato così onestamente ad altri uomini come ha fatto Leopardi”. Giorni fa, in una email indirizzata a me dal prof. Clamer, parlando del Recanatese, ho trovato questa dichiarazione: “Leopardi ha parlato onestamente agli altri uomini…”

Allora: siccome pure io sono dello stesso parere, voglio tirare in ballo il fatto della depressione. Cioè: Leopardi ha visto tutto nero perché era malato o perché la vita e il mondo sono come lui li ha descritti? Io parteggio per la seconda ipotesi, d’altronde suffragata da pensatori a lui precedenti, come il Siracide del Vecchio Testamento e Buddah, ed altri che non sto  a nominare (sarebbero troppi). Leopardi non ha fatto come quel trombone di Hegel che ha indorato la pillola all’umanità (anche se Hegel ha del fascino e del genio innegabili); non ha scritto gli ottimismi di Leibniz, non ha creduto alle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano. Egli, dai “Pensieri” all’immenso “Zibaldone”, dalle poesie alle “Operette morali”, ha scavato dentro alla realtà del mondo, alla sofferenza di tutte le creature, regno vegetale compreso, alla morte come unico rimedio al male di vivere. Non è stato un poeta “consolatore”, come se ne vedono tanti in ogni epoca, specie nel periodo ottimistico dello storicismo marxista e delle chiese della gloria. Pure se taluni si sono aggrappati al breve passo della “Ginestra”, in cui il desolato Leopardi invita gli uomini a collaborare e non a farsi guerra, per definirlo addirittura ottimista, rimane tutto il resto del suo pensiero, che annulla ogni speranza e dichiara il trionfo del male. Altro che depresso! Ha visto chiaro e ha parlato onestamente a tutti. E’ un pensatore scomodo perché non dà speranze. E la Storia, la realtà presente generale, gli offrono ragione. E tuttavia egli amava la vita. Ma questo è un altro discorso, che complicherebbe il già tanto difficile giudizio equo su un gigante della poesia, del pensiero, dell’innovazione linguistica etc. Un genio assoluto (lo dico in un tempo – il nostro –  di scarsa creatività intellettuale, non perché manchino gli ingegni, ma perché questi vengono emarginati dalla dittatura della banalità).

 

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