Street? Il genere che non prevede generi
Il nostro percorso di preparazione del Forum dei Collettivi prosegue con la pubblicazione di una serie di interviste realizzate con i Collettivi aderenti alla FIAF; oggi è la volta dello storico Collettivo Mignon.
Attilio Lauria
Quali sono le motivazioni per cui avete deciso di fondare un collettivo e come si è formato?
Nel 1995 il mondo della fotografia era notevolmente diverso da quello di oggi. Sia in ambito professionale che amatoriale non esistevano esempi di approcci “culturali” alla materia, almeno per come li intendiamo noi; da qui l’esigenza di coinvolgere poche persone attorno ad un progetto di studio sulla Storia della fotografia e di pratica in merito all’uomo e al suo ambiente.
Quali sono i vantaggi e le difficoltà di un collettivo?
I vantaggi sono tantissimi, ma soprattutto il fatto che le conoscenze acquisite dal singolo sono condivise con tutti e quindi quello che normalmente si ottiene da soli, in molto tempo e con fatica, arriva con facilità e in uno spirito di assoluta apertura.
Le difficoltà maggiori si hanno quando il singolo ragiona egoisticamente per sè, pensando al gruppo solo come opportunità personale. Mignon ha dimostrato che è vero il contrario, come quando il gruppo lavora insieme al progetto di un singolo fotografo.
Come si diventa membro del collettivo, qual è il processo di selezione?
Stiamo per arrivare ai venticinque anni di attività ininterrotta e in questo tempo hanno fatto parte del gruppo Mignon circa venti fotografi, quindi sono cambiate spesso le modalità di ammissione. Nella sostanza o sono fotografi che chiedono una nostra collaborazione ad un loro lavoro, e poi vengono invitati ad un progetto Mignon, o siamo noi ad invitarli. Dopo uno o due progetti conclusi se ci sono le premesse vengono ammessi nel gruppo e questo dopo almeno un paio di anni di confronto. Purtroppo alcuni validi fotografi non hanno a disposizione tutto il tempo che noi pretendiamo.
Pensate che internet abbia favorito la formazione dei collettivi? Che abbia cambiato la fotografia?
Senz’altro! Oggi basta digitare sullo smartphone quello che ti interessa e trovi subito chi se ne occupa e ci puoi fare anche un gruppo ovviamente. In questo senso Internet è meraviglioso.
Per come la intendiamo noi la fotografia non è cambiata, e mi riferisco alle immagini stampate e quindi selezionate da un archivio e pensate a quello scopo, questo per sottolineare che le “immagini fisse” hanno poco da spartire con le immagini in internet, che certo alla fonte possono essere fotografie ma che in internet sono solo effimere riproduzioni. Riteniamo che il senso delle fotografie dipenda in modo sostanziale dall’uso che ne viene fatto.
Il concetto di originale in fotografia è molto importante: è fondamentale vedere fisicamente un Dagherrotipo, una stampa al collodio o al platino per capire l’importanza dell’opera di un fotografo. Si percepiscono valori visivi che sullo schermo si perdono.
Dimenticarsi di questo aspetto della fotografia è molto grave. Altrimenti che senso avrebbero le mostre, i libri e i musei?
I membri del collettivo si incontrano regolarmente faccia a faccia o solo on-line?
Noi ci incontriamo solo di persona in media una volta alla settimana ma nei momenti di conclusione dei progetti molto più spesso. Solo recentemente da quando Fatima Abbadi si è trasferita con la famiglia in Olanda ci colleghiamo via web con Lei ad ogni riunione del gruppo.
Quale consiglio vi sentireste di dare a coloro che intendono costituire un proprio collettivo?
Prima di tutto che il collettivo non sia una semplice vetrina di singoli autori e che si lavori a dei progetti tutti insieme. L’aspetto progettuale, cioè sapere cosa fare, è la base portante. A questo proposito conoscere la storia della fotografia è fondamentale; temiamo che molti pensino che ciò che ci viene offerto oggi sia sempre il meglio, ma non è così. La fotografia ha avuto un ruolo sociale molto importante ed era un linguaggio in cui venivano riconosciuti dei valori che oggi sono messi in discussione. Il rischio che si corre è quello di produrre immagini che non servono a nessuno e allo stesso tempo di privarci di un mezzo di conoscenza eccezionale. Nel nostro percorso è stato fondamentale finalizzare i progetti non solo alle stampe fotografiche e alle mostre ma anche alla stampa dei libri che rimangono a testimoniare dell’opera svolta.
Quando possiamo parlare di buona Street Photography, come si identifica la qualità in questo particolare genere di fotografia? Forma e contenuto: come si conciliano nella Street? devono per forza conciliarsi?
La Street Photography deve farti percepire un tempo, un luogo e le persone che lo vivono in modo naturale, senza forzature. Parlare in senso generico di buona fotografia, come purtroppo si fa spesso, non porta da nessuna parte; possiamo solo valutare il lavoro di un fotografo e trarne le dovute conclusioni, d’altra parte non mi sembra che a proposito di “Pittura” si facciano di queste domande. Sicuramente alcuni aspetti vanno considerati con attenzione: deve percepirsi la presenza umana, come primo valore all’interno della fotografia, e non come mera presenza o come elemento di “contorno”, “grafico” o “formale”. Molta di quella che oggi si autodefinisce fotografia di strada, ha poco da spartire con la storia di questo genere, proprio perché ne ha perso i riferimenti fondamentali.
In che modo influisce la privacy sulla Street? al di là della legge, qual è l’etica del collettivo?
Il discorso sulla privacy è molto lungo e complesso. Provocatoriamente, diciamo che il rispetto delle leggi è opportuno, il rispetto per il soggetto è obbligatorio! Un bel testo su questo tema e su cui noi siamo perfettamente d’accordo è quello che ha pubblicato nel suo sito il fotografo Vincenzo Cottinelli nel 2012: E’ FINITA LA STREET PHOTOGRAPHY? Fotografia di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico: ripresa, utilizzo, pubblicazione. Principi costituzionali, Legge n.633, Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Spunti per un dibattito.
L’uso degli smartphone nella Street è sempre più comune, voi come vi ponete rispetto all’attrezzatura da usare? Usate (o avete provato ad usare) uno smartphone?
Noi continuiamo ad usare la pellicola in bianco e nero semplicemente perché non abbiamo mai trovato un motivo valido per abbandonarla, ma non abbiamo nessun tipo di regola in merito a cosa si debba usare per ottenere le fotografie, qualsiasi cosa va bene purché siano le fotografie a dimostrarlo. Nel nostro gruppo gli ultimi arrivati usano ovviamente il digitale, ma ci conforta molto il loro interesse e poi effettivo uso della pellicola come scelta principale. Berto Leonio che da poco purtroppo è mancato veniva da una lunga esperienza di fotografie a colori su diapositiva per passare al digitale e infine negli ultimi cinque anni anche alla pellicola in bianco e nero. Nessuno di noi usa lo smartphone per ottenere fotografie ma è ovvio che fra i fotografi delle nuove generazioni ci sarà qualcuno in grado di farlo bene.
Negli ultimi anni l’attenzione verso la fotografia di strada è cresciuta molto, quale pensate ne sia la ragione?
Con sempre maggiore facilità tutti possono creare immagini, e la Street Photography permette il maggior grado di libertà con l’apparente minimo impegno. Sarà poi il tempo a dirci cosa succederà, e cioè se si tratta per molti di una moda o di un impegno reale.
Avete elaborato una vostra ‘definizione’ di Street?
Paradossalmente l’abbiamo definita come il genere che non prevede generi. Infatti più che un genere la consideriamo un modo di essere e vivere la fotografia in assoluta libertà. La fotografia di strada nasce dall’interazione fra il fotografo e ciò che incontra senza premeditazioni, è un modo di prendere appunti visivi che a volte riescono a trasformare il mondo ordinario in qualcosa di straordinario con assoluta semplicità.
Tre libri di Street che consigliereste
Da grandi appassionati di libri fotografici è davvero difficile rispondere: tralasciando almeno un paio di storie della fotografia che chiunque dovrebbe leggere e i classici “testi sacri” (Walker Evans American Photographs, Henri Cartier Bresson The Decisive Moment, Paul Strand Un Paese, William Kline New York e Robert Frank The Americans) che non servono a mitizzare ulteriormente questi nomi ma a capire l’effettivo valore di questi volumi; è certamente fondamentale il “Bystander – A history of street photography” di Colin Westerbeck e Joel Meyerowitz che è un testo a carattere storico mentre per un approccio pratico il bel volumetto di Willy Ronis “Le regole del caso” è certamente più interessante di tutta quella serie di manuali che affrontano la materia con una sfilza di esempi da copiare. Per le motivazioni che ci spingono a fotografare e che spesso sono “Latenti” sono utilissimi tutta una serie di testi che analizzano la figura letteraria del “Flaneur” come l’ottimo “Lo sguardo vagabondo” di Giampaolo Nuvolati.
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