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Spunti di riflessione: Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

Spunti di riflessione: Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
Agosto 11
07:21 2018

Cesare Beccaria nasce nel 1738 a Milano. Laureatosi in giurisprudenza a Pavia, sposa Teresa Blasco nel 1761. Dalla loro unione nascerà Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni. Esponente dell’illuminismo italiano e amico del Verri, nel 1763 scrive “Dei delitti e delle pene”. Tale opera, di stampo liberale, razionale e pragmatica, è un cardine per ogni riflessione in ambito penalistico. Muore a Milano nel 1794. All’inizio dell’opera, si legge che “…le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero.” Oltre l’influsso della dottrina del contratto sociale di Rousseau, interessante il riferimento alle leggi con termini quali “passioni”, “necessità” e “natura umana”. Coglie immediatamente la natura che dovrebbe assumere la legge: l’intrinsecità dell’essere tramite astrazione e generalizzazione, evitando il fondamento delle passioni e limitando la necessità? Poco oltre leggiamo: “Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascuno forma la sovranità di una nazione.”. Il tema della libertà è centrale: ci si limita di una porzione di essa al fine di essere sicuri di goderne la restante, dove la “necessità” è la causa di ciò e il fine è la sua difesa: “L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il più è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto.”. Qualche rigo dopo Beccaria fornisce una definizione di giustizia: “E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari…”. E’ definito il principio di legalità: “…le sole leggi possono decretar le pene su i delitti… Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che leggi generali che obblighino tutti i membri…”. In quest’ultimo passo, è definito il contenuto della legge che deve riferirsi alla generalità dei cittadini. E’ definito anche il fine della pena: “…al bene pubblico e al fine medesimo di impedire i delitti…”. Con riferimento all’interpretazione della legge, il Beccaria asserisce che: “Nemmeno l’autorità di interpretare le leggi penali può risiedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori.”, individuando il compito del giudice di “…esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi e difformi alla legge scritta…”. Possiamo aggiungere all’interno della cornice edittale? Qualche passo dopo, è definita l’applicazione dell’interpretazione con riferimento alla “oscurità che trascina seco necessariamente l’interpretazione…” dove tale oscurità, è presente “se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo…non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà…”. Da questo passo possiamo estrapolare il principio di tassatività (sotto-principio di quello di legalità)? E’ individuato il principio di proporzione in un passo successivo: “…vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene.”? Si menziona il concetto di probabilità e danno: “All’esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità”, e che “…la vera misura dei delitti, cioè il danno alla società.” (principio di offensività?). Il fine della pena è esplicito: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile… Il fine…non è altro d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.” (teorie relative della pena?). Educazione e Rieducazione? E’ definito anche il contenuto della ratio: “Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia una certa connessione nelle proprie idee e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini…”. Beccaria scrive: “Dove le leggi siano chiare e precise l’officio di un giudice non consiste in altro che di accertare un fatto.” (sotto-principio di tassatività?) Inoltre, si fa ricorso al criterio del “buon senso” nel giudicare (criterio di ragionevolezza?). Quando applicare la pena? “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile.” Qualche passo dopo si legge: “La privazione della libertà essendo una pena…” individuando la privazione con effetti sulla libertà come essenza del diritto penale? Potremmo assurge a principio? Principio di privazione? Custode del rapporto tra pena e libertà da cui dovrebbe esprimersi la giustizia? Potremmo considerarlo come il peso della bilancia, facendo riferimento al simbolo della giustizia per eccellenza? Perché la prontezza della pena è utile? Perché “quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena e il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile.” Inoltre, è asserito che la pena deve essere il più possibile conforme alla natura del delitto e che la sua misura deve essere il “pubblico danno” dove “l’uguaglianza delle pene non può essere che estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo… Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali…”. Come non far riferimento alla certezza delle pene? Beccaria ci dice che “La certezza di un castigo, benché moderato -“timore di esperienza” il Beccaria definisce tale parola- farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità…”. Originale l’accostamento del concetto di dignità a quello di pena: “…la sola legge determini i casi nei quali un uomo è degno di pena.” Legge e dignità come limiti e modalità della pena? Emerge un altro sotto-principio a quello di legalità: quello della riserva della legge? Dal testo si ricava che il Beccaria è contrario alla tortura. Definisce il delitto come “un’azione contraria alle leggi…” e individua anche l’ambiente della pena, come “il luogo della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente e non altrove gli uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire l’offesa pubblica.” Qualche passo dopo il Beccaria scrive: “Le pene non devono solamente esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel modo di infliggerle.”. Distingue i delitti in due classi: quelli “atroci” e quelli “minori” che ravvisa nella “natura umana”. Non poteva non essere affrontato il concetto di giusta pena che Beccaria definisce come “giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo.”. Pena e prevenzione? E’ fatta anche una distinzione tra “il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggera, e questa dalla perfetta innocenza…”, dove tale distinzione deve essere fissata “dalla cieca ed imparzial legge”. Per quanto riguarda l’intenzione e la complicità, Beccaria scrive che: “L’importanza di prevenire un attentato autorizza una pena…” e che quando si è “complici di un delitto… Quando più uomini si uniscono in un rischio, quant’egli sarà più grande tanto più cercano che sia uguale per tutti; sarà dunque più difficile trovare chi si contenti d’esserne l’esecutore, correndo un rischio maggiore degli altri complici.”. In conclusione dell’opera, sostiene che: “E’ meglio prevenire i delitti che punirgli.”. Come prevenirli? “Fate che le leggi siano chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle.”. “Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poiché questi aggiunge ai mali della prima quegli dell’errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero…” rendendo “necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze.” Da tale passo si ricava anche il concetto di errore essenziale. Ed ecco che, oltre a quello di “ricompensare le virtù”, Beccaria individua il mezzo cardine della  prevenzione: “…il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti…l’educazione…”. Un’educazione adeguata atta a conoscere, conoscersi e dominare i propri sentimenti? Potremmo dedurre da ciò il fine rieducativo della pena? Per Beccaria, il legislatore deve essere “umano… Saggio architetto…e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno, e non sarà costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il bene pubblico dal bene de’ particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla diffidenza.”. Per quanto riguarda la pena di morte, Beccaria scrive: “Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita?”. E ancora: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.”. Concludiamo citando sempre un passo del Beccaria: “…grandi verità, la durata delle quali non è che un tempo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini.”, soprattutto, aggiungiamo, in assenza di memoria.

 

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