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Spread, art. 18 e vecchi merletti

Marzo 27
09:42 2012

Ci sono guerre dimenticate, alcune sottilmente retrocesse, altre spettacolarmente pubblicizzate. Guerre appena fuori l’uscio, ma lontane dalle nostre tavole ben imbandite di sapori e di colori vivaci. Eppure c’è un’altra guerra con la residenza a fianco della nostra dimora, che deruba vite, che recide esistenze, che rapina umanità nel silenzio più malato di illegalità.

Mentre tutti, quindi nessuno, giocano a fare dello spread, dell’art. 18, il grimaldello intangibile per ogni eventuale crescita possibile, continua la sequela dei morti accatastati uno sull’altro, morti insignificanti di ieri, di oggi e di domani, morti che non parlano, che non possono dettare i tempi alla giustizia disattenta. Sono morti e basta.

 

Morti meno importanti di quelli dell’emergenza mafia, terrorismo, criminalità, infatti quelli, sebbene con il ritardo assassino della storia, hanno imposto il risveglio delle coscienze. Questi altri invece sono morti che vengono da prima della vittoria su ogni mafia, e continuano a dispetto di ogni tragedia, di ogni solitudine, soprattutto a causa di ogni smemorata ingiustizia. Sono i morti che ogni giorno inzuppano di lacrime di coccodrillo i tanti contratti di lavoro fantasma, nei cantieri, nei luoghi destinati alla fatica ma privi di ogni sicurezza.

Sono troppi questi morti che gridano vendetta, lo fanno senza armi, ma con la richiesta feroce di un’ingerenza umanitaria, dal momento che quella sindacale rimane inevasa alla coscienza. Sono questi i morti che indicano una tradizione, diventata infame malcostume, quale accondiscendenza della sciagura già prossima. Nel Bel Paese si ode il corpo a corpo con la mafia, il terrorismo, la politica corrotta, la corruzione capillare, c’è frastuono di colpi, c’è lotta, c’è vita, c’è speranza. Invece per questi morti senza lode né medaglie scintillanti, c’è ad attendere il prossimo sventurato, la postura composta del giuda di turno, di quello e di quell’altro che racconterà una verità disconnessa dall’altra, da quella che è per davvero causa di tante dipartite sconosciute.

Italia, Italia, è sempre Italia, quella del pallone d’oro mondiale e quella per l’inciucio nazionale, è Italia che si barrica, che si offende, che carica a testa bassa, che marcia per le strade, che prende le botte e le restituisce, è Italia che rimbrotta e si intestardisce, ma non si impunta per l’ennesimo innocente caduto dall’impalcatura perché sprovvisto della necessaria imbracatura. C’è chi imputa questa cecità diffusa alla strategia furba e alla pressione opulenta esercitata dagli interessi di categoria, dalle lobby solitamente ignote. Sono tante le inefficienze, altrettante le inefficaci soluzioni mostrate alla fiera degli stolti, esse inciampano sovente con la disonestà intellettuale insita nel profitto quale fine, che inventa e costruisce il potere della politica, quella politica che non fa servizio, perché opera per alcuni, e non per tutti, tanto meno per quei morti in lista di attesa, e comunque tutti finiti in serie B.

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