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Sotto la pelle

Marzo 10
23:00 2009

Frutto della collaborazione fattiva tra il Teatro Metastasio Stabile della Toscana di Prato (patria di Malaparte) e il Mercadante Teatro Stabile di Napoli, il prodotto drammaturgico di Marco Baliani (sul celebre testo dello scrittore toscano), rappresentato in prima assoluta nell’aprile 2008 a Prato, è arrivato al Valle di Roma nel mese di gennaio. Obiettivo del regista, recuperare la feroce ‘vivisezione’ con cui Malaparte raccontava l’indicibile e mostrava, “denudate, le nuove relazioni umane”, una volta che l’involucro, “quella pelle che noi chiamiamo civiltà”, aprendosi lascia venire allo scoperto “il corpo biologico”, e il corpo sociale, “il nostro coesistere”, precipita, non più trattenuto da una “pelle che lo contenga, che lo delimiti e lo rafforzi”. Metaforizzata in Napoli, il cui ‘ventre’(topos naturalistico già riassunto dalla Serao) aperto dalle bombe metteva allo scoperto non solo gli scheletri dei suoi cimiteri, questa miseria universale e apocalittica non può incasellarsi nell’ordinato spazio diacronico di un racconto. Perciò, giustamente, è stata data allo spettacolo l’evidenza sincronica di un andamento per quadri. Illuminati da taglienti fasci di luce, quasi “lampi caravaggeschi”, o viceversa ombreggiati nella luce morbosa da lumino ad olio o da bordello. Come “un attraversamento di gironi che all’infernale hanno sostituito la miseria dell’umano”. Mentre la scena è fatta di “lacerti, membra di spettacoli” già rappresentati, “paesaggio di detriti, di cose abbandonate o dimenticate”, per scelta di Marion d’Amburgo, che ha curato scene e costumi, in ossequio alla “programmatica dissoluzione della narrazione” voluta dal regista. È così che si intrecciano immagini e quadri nell’atmosfera della peste annunciata: “La peste è scoppiata a Napoli il 1° ottobre 1943, il giorno in cui gli eserciti alleati sono entrati come liberatori…il morbo si annida nella stessa mano tesa fraternamente ad aiutare”. Metafora antica di corruzione dell’uomo e del corpo sociale, letterarizzata da Tucidide a Lucrezio, da Boccaccio a Manzoni, prima di arrivare a Camus e alla sua profetica minaccia del bacillo annidato ‘in sonno’ in vecchi cassetti, finché una nuova generazione di topi non venga a riassumerlo a far strage di uomini la peste è cara anche a Malaparte, che così avrebbe titolato il suo romanzo, se Camus non lo avesse preceduto. Ma un’altra metafora apre lo spettacolo, quella dell’uomo-pelle-bandiera, l’uomo schiacciato dai cingoli di uno Sherman, che la pietà di altri infila per la testa sulla punta di una vanga, mentre “la pelle umana ciondola e dondola nel vento proprio come una bandiera. Quella è la bandiera dell’Europa…la bandiera della nostra patria…La nostra vera patria è la nostra pelle”. Ma subito la scena si trasforma, l’uomo-pelle viene vestito con l’abito militare di quegli americani “belli, giovani, sempre puliti”, che “hanno l’anima molto più chiara della nostra…credono che la miseria, la fame, il dolore, tutto si possa combattere”; che conoscono la solidarietà, ma non sanno che “ la solidarietà non è un sentimento cristiano”, e invece “Cristo esige dagli uomini la pietà”. Pietà che diventa ferocia in quei “dieci, venti forsennati” che lottano per recuperare il proprio morto seppellito dalle bombe dentro la grotta di Vico Santa Lucia. Pietà dei bambini che “non piangono, non gridano, volgono intorno gli occhi a mirar l’orrendo spettacolo, con quella meravigliosa rassegnazione dei bambini che perdonano l’impotenza degli adulti, e hanno pietà di chi non può aiutarli”. Pietà per il cane Febo, perduto una sera, e ritrovato in quelle “strane culle a forma di violoncello” dove, “in un silenzio di neve” per le corde vocali tagliate, i cani vivisezionati sopportano il martirio, guardando “con una meravigliosa dolcezza negli occhi come “Cristo crocifisso”. Pietà per la vergine esposta, in un barocco interno napoletano, nell’abito di seta rossa, al contatto impuro dei vincitori che per un dollaro possono mettere un dito ad accertare la sua verginità. Pietà per i bambini e le madri che li vendono ai marocchini, sotto “un cielo di seta cruda”. Era questo lo sguardo di pietà che lo scrittore toscano volgeva su Napoli dilaniata, nel cui popolo “Malaparte ha ravvisato forse la più forte incarnazione di quel Cristo collettivo chiamato a sacrificarsi per la salvezza del genere umano”, come annota Renato Barilli. Sentimento certo frainteso da quello stesso popolo che ha guardato a lungo con sospetto e dispetto a La pelle e al suo autore, testimone privilegiato di quel tempo, in quanto ufficiale di collegamento tra esercito italiano e truppe alleate. E peraltro, testimone sempre dello scandalo della guerra. Dovunque esso si manifestasse, dalla Caporetto della sua prima opera (l921) a Kaputt(1944) a Maledetti toscani del 1956. Testimone o, come acutamente lo definisce ancora Barilli, assimilandolo a Dante, “superbo ‘reporter’, inviato speciale nei luoghi della condanna del genere umano…mosso da un fine edificante e salvifico”. In tutto ciò tuttavia, da questa drammaturgia, cui la polisemia imposta come cortina intellettualistica sottrae la compassione, sembra uscire mortificato il vero talento di Baliani (che qui solo a volte a sprazzi lampeggia), la sua qualità di grande scultore del movimento, capace di cogliere nella plasticità dei corpi l’universo dei sentimenti, come avveniva nel superbo Sakrifice del 2001. Soffocato, impigliato negli orpelli di un barocchismo che non è nelle sue corde, Baliani annaspa, inciampa tra il minimalismo delle scarpe dei cadaveri e la sontuosa Danse macabre o il posticcio banchetto veneziano dei vincitori. Peccato, per un regista che, quando lavora ‘di suo’, può raggiungere vertici assoluti.

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