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Sognando leoni

Agosto 16
15:29 2011

Racconto di Maria Lanciotti

Ferragosto. Città vuota, strade deserte. Me ne vado, me ne vado a cercare vita in qualche paese qui intorno, dove fanno le feste con balli e canti, salsicciate e discorsi arruffati di politica. Me ne vado alla stazione e prendo il treno. Il primo che passa, basta che vada in su, verso i Castelli. C’è un treno fermo sul binario. Salgo e mi trascino dietro la bicicletta. Il treno riparte e va verso Roma, proprio nella direzione contraria a quella che avevo deciso. Vorrà dire che alla prima fermata scendo e aspetto un altro treno che mi riporti qui in stazione, poi si vedrà.
Questo non è un treno ma un carro bestiame, tutti ammassati addosso alle lamiere, o seduti per terra alla beduina.
Un ometto con la cravatta nera mi butta tra le braccia un pargoletto con gli occhietti vispi e si perde in mezzo alla calca, il pargoletto mi sorride pieno di simpatia, mi punta i piedi sullo stomaco e pigia e scalcia con forza insospettabile in un neonato, seppure di ultima generazione.
Penso che sono senza biglietto. Ho il B.I.R.G. ma non è valido per questa tratta presa per sbaglio, e comunque non ho pensato a vidimarlo, se passa il controllore sono fregato. Ho con me anche una bicicletta e un neonato, che gli vado a raccontare? A proposito, ma di chi è ‘sta bicicletta sconquassata e ‘sto ragazzino con le gambette da calciatore all’attacco, e chi è tutta questa gente che mi sta ammucchiata sopra e mi leva l’aria, e che fine ha fatto l’ometto con la cravatta nera?
Siamo arrivati. Tutti scendono e nessuno che mi dà una mano. Ma ecco che emerge dal nulla l’ometto con la cravatta nera, afferra il piccino recalcitrante e sparisce senza una parola, anch’io scendo e mi trascino dietro la bicicletta che non è mia, ma sono io che l’ho portata sul treno.
A Roma è tutto buio, voglio andare a comperare un biglietto perché il viaggio di ritorno lo voglio fare tranquillo ma non so come orientarmi, mi sembra di ricordare che la biglietteria si trova più avanti spostata verso destra, e lì mi dirigo spingendo a mano la bicicletta, spingendo in salita sempre più in salita, ma più avanzo e più il buio infittisce, non vedo a un palmo dal naso, al diavolo pure il biglietto, se c’è da pagare pagherò la multa, giro la bicicletta e torno al binario da cui sono sceso, e mentre sto lì ad aspettare che un treno passi vedo lampeggiare un’insegna con su scritto bar e tabaccheria, e allora mi dico ora faccio una corsa e mi vado a comprare il biglietto, e per fare prima inforco la bicicletta e pedalo seguendo la luce gialla e verde dell’insegna al neon, e arrivo di fronte a un palazzo squadrato con tanti finestroni scuri e nemmeno una porta, l’insegna da lì non è più visibile oppure si è spenta, ma perché questa città sta così immersa nell’oscurità più fitta, ed ecco due ragazzi che mi girano intorno ridacchiando, e io penso di filarmela senza voltarmi indietro, ma sono per natura ostinato e se dico che voglio un biglietto avrò il mio biglietto per il ritorno, e prendendo il toro per le corna chiedo ai ragazzi dove si trova il bar tabaccheria ché mi serve un biglietto metrebus per 20 chilometri, e uno dei due mi dice “Tu non lo troveresti mai, se vuoi ti ci vado io”. Bene, gli sto per rispondere, quando mi trovo a fianco la mia amica Gilda neo zelandese, e chi ci pensava a lei, non la vedo e non la sento da più di vent’anni e adesso eccola qui, minuscoletta e taciturna, che mi guarda con gli occhioni color nocciola acerba e io capisco senza bisogno di parole che anche lei è senza biglietto, anche lei si trova nella mia stessa incredibile situazione, e non sa come uscirne.
“Sì grazie”, dico al ragazzo che è rimasto a guardarmi con aria innocente e bieca. “Due biglietti metrebus per favore… facciamo per cinquanta chilometri…” e ancora non ho finito di parlare che il ragazzo è già schizzato via, ed eccolo di ritorno con i biglietti in mano e un sorrisino ambiguo all’angolo della bocca. Adesso questi due mi danno una mazzata in testa e mi levano portafogli e bicicletta e forse pure la mia amica Gilda, e mentre questo pensiero mi dà la scossa, il ragazzo mi porge i biglietti e allunga la mano aspettando che gli rimborsi i soldi, e io comincio a cercare nel mio portafoglio, e tiro fuori una manciata di centesimi che mi metto a contare con pedanteria, con una tirchieria che non mi riconosco, mentre i due ragazzi ridono dandosi gomitate e sento la parola “spilorcio” arrivarmi dritta in faccia come uno schiaffo e non so come respingerla, e i due ragazzi si allontanano ridendo senza aver preso i soldi, senza avermi rapinato e senza aver dato nemmeno uno sguardo alla mia amica neo zelandese che pure è una bella stanga, e io col trabiccolo che continuo a trascinarmi dietro come un ferrovecchio in pensione, con la mia amichetta silenziosa al fianco, mi avvio scorato verso la stazione desiderando con tutta l’anima di svegliarmi da questo incubo agostano, mentre nella testa mi risuonano come martelli pneumatici tre parole, mai sentite prima in vita mia, in una lingua morta e mai sepolta, Nosce te ipsum, e Gilda apre finalmente la bocca per dire Acta est fabula, e io mi risveglio in un bagno di sudore nella mia stanzetta sottotetto, accecato dal sole che entra dalla persiana accostata e sbatte sulle pareti con allegra violenza, e le parole Hic sunt leones mi si stampano chiare sulle labbra, risalite da chissà quali profondità e interstizi, e io comincio a girare per la stanza mimando un safari alla Hemingway, dove io sono belva e cacciatore e terra inesplorata, e iena puzzolente che non riesce a smettere di ridere.

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