Sognando Carovane
Ho ascoltato Carovane, il nuovo CD del gruppo “I cosacchi sperduti”, e sono andata a dormire. Era di pomeriggio, un pomeriggio nero di tempesta e fragoroso di tuoni. Si stanno piangendo le vittime dell’alluvione in Sardegna, negli occhi le piccole bare bianche che si piantano come coltelli affilati in quel punto dove si pensa risiedano i sentimenti, ma non c’è accelerazione cardiaca, solo un battito cupo che si ripercuote nella testa.
Vado a dormire e dormo, con l’intenzione di schivare almeno per un’ora i boomerang lanciati dall’incoscienza degli uomini, che tutti ci tornano addosso con micidiale violenza. Dormo e sogno, come sempre mi succede quando m’infilo nella dimensione onirica, abbandonando tutto alle mie spalle. Dormo e sogno, e vivo la realtà più reale che si possa immaginare. C’era una casa di campagna, rustica e grande. Per meglio dire un casale di quelli che resistono ai secoli, fatti con le pietre e il legno del luogo, tirato su da mani che conoscono ogni materiale disponibile e sanno farne l’uso migliore. Eravamo in tanti, vecchi e bambini e ragazzi e donne con le creature al petto. Di uomini ce n’erano pochi, forse nessuno, o forse non mi erano visibili. Mi sentivo bene, in compagnia, e non mi preoccupavo troppo per la sera che scendeva, e per tutta questa gente che doveva mangiare. Avrei preparato velocemente una carbonara all’ora di cena, pensavo, ma ora mi piaceva stare in mezzo a tutti, ascoltare ed essere ascoltata, ridere o sorridere rispecchiandomi negli altri. I ragazzi mi stavano intorno, mi raccontavano le loro avventure sognate, i loro desideri mai prima espressi. I vecchi conversavano tranquilli alimentando il fuoco nel camino, le donne ninnavano dolcemente i bimbetti e le più anziane portavano bracciate di legna e secchi d’acqua riempiti alla sorgente. Nel casale non c’era né acqua né corrente elettrica, ma la luce del tramonto bastava ad illuminare tutto. Non pensavo alla notte, al buio della notte, a come si sarebbe potuto sopperire alla mancanza di ogni fonte di luce, e guardavo affascinata la luna che cominciava a spuntare fra due colline. Ero seduta sulle ginocchia di qualcuno, da tanto tempo non mi capitava, non sapevo chi fosse e non importava saperlo, il contatto era confortevole e dolce. Poi vedo una fila di persone provenire da lontano, persone affaticate, volti scavati e duri, le mani protese come a chiedere aiuto o a lanciare maledizioni. Mi volto, siedo sulle ginocchia del mio compagno, del mio fedele paziente compagno, e lì sto bene, lì vorrei restare tra le voci dei giovani così cristalline, così chiare, ma è l’ora di cena e tutta quella gente, quella dentro la casa e l’altra che sta arrivando, dovrà pur mangiare. Spetta a me preparare, come fossi la padrona di casa o un’abituale frequentatrice. Non ho pentole, non ho ingredienti, ma c’è acqua e legna e qualcosa scapperà pur fuori dalla dispensa. Dispensa vuota, vi è rimasto solo l’odore di tanti pani sfornati nel tempo e il profumo di anice delle ciambelle all’acqua. Mi affaccio nella stanza accanto, e vedo in quel momento che tutti stanno entrando ma restano sulla porta in attesa forse di un invito. A cosa posso invitarli, non ci sono nemmeno tavolo e sedie, e seppure niente ci sarebbe da mettere in tavola. Sconforto e vergogna, come ho potuto farmi cogliere così alla sprovvista pur sapendo che avrei dovuto provvedere all’accoglienza di tutta quella gente? E gli occhi mi vanno lontano, lontanissimo nel tempo, e vedo mia nonna appoggiata laggiù al fianco della montagna, fa parte di un’altra fila di pellegrini, tutti anziani, che forse pensano di passare la notte su quel viottolo, sotto qualche sperone di roccia, ma qui siamo in alto e la notte è freddissima. Come fare… come fare. E vedo mia nonna che dal suo zinale tira fuori una noce, e un’altra vecchina tira fuori una mela secca, e un bel vecchio tira fuori dal tascapane una pagnotta dorata e prende a tagliarla a fette appoggiandosela al petto. Oh cari, cari, ci siete tutti, venite ad aiutarci, noi qui non sappiamo fronteggiare la situazione, non ne abbiamo i mezzi, non conosciamo il sapore della fame, il sapore della fame altrui, noi pensavamo fosse bello così, tutti insieme ad ascoltare e a parlare, come non si fa mai, come non si fa più. E la noce rotola sul viottolo fin sulla porta, la raccolgo come fosse un’Ostia consacrata, la consegno al più vecchio tra i vecchi, che a sua volta la passa al bambino più piccino che c’é. E arrivano gli anziani con la pagnotta e ognuno prende la sua fetta di pane e prende a masticarla lentamente solo quando anche tutti gli altri hanno avuto la loro razione. E penso che invece di sfamare gli ospiti da essi siamo stati sfamati, ma a parte il rammarico di non aver provveduto come si doveva, il fatto acquista un valore simbolico che tutto perdona e fa perdonare, ma la prossima volta andrà diversamente, sarò io, saremo noi, a onorare gli ospiti. Mi sveglio bruscamente al fragore di un tuono, apro gli occhi ma il sogno ci resta dentro e me lo porto addosso, insieme alla musica de “I cosacchi sperduti”, parte delle Carovane che Daniele Mutino, Matteo Agostini, Daniele Ercoli, Rosario Liberti, Umberto Vitiello spingono avanti, alla ricerca di un’oasi che dia ristoro e pace. Nessuno più sperduto, preso nel cerchio dei cantastorie.
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