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“Slow-food”

Gennaio 22
09:20 2013

Quando mangiamo il cibo ci sfama e ci nutre, ma diventa anche parte di noi che, piaccia o no, siamo proprio ciò che mangiamo. Assimilando il cibo entriamo in contatto diretto con il mondo e l’atto del mangiare, per quanto possa sembrare banale, si carica di significati, di gratificazioni, di conseguenze potenzialmente irreversibili. Alimentarsi, al bisogno primario di soddisfare la fame, l’appetito, aggiunge piacere, desiderio, curiosità.

È anche vero però che, quando ci vengono proposti piatti del tutto sconosciuti o preparati con ingredienti mai sentiti nominare, il mangiare talvolta può far emergere sentimenti quali diffidenza, incertezza, negazione. Questo ci fa comprendere quanto sia importante sapere cosa si sta mangiando, non solo per la salute, ma anche per la consapevolezza dello stretto rapporto che intercorre tra noi e la sfera della diversità, che quotidianamente si rappresenta anche nel cibo. A volte non ci soffermiamo sul fatto che la nostra identità culturale e sociale si costruisce anche attraverso il cibo. Il cibo è dono, memoria, riconoscimento, emozione e Marcel Proust elabora molto bene questo concetto ne La ricerca del tempo perduto, sul sapore della “madeleine” legato ai ricordi della sua infanzia, che riemergevano attraverso le sue papille gustative. L’emozione, la memoria sono temi legati a doppio filo al cibo che unisce e separa. E deriva proprio da questa particolarità emozionale il fatto che il cibo possa collegare persone, eventi, luoghi, ricordi e momenti di vita. La consumazione e la scelta del cibo è una delle più importanti operazioni culturali trasmessa attraverso l’educazione e perpetuata per tutta la vita. La scelta è frutto di una ricerca di quegli alimenti che costituiscono per noi i vocaboli (prodotti, ingredienti) di un lessico organizzato secondo regole grammaticali che sono le ricette e di una sintassi data dall’ordine delle portate, dei menù, che si estrinseca trionfante nell’arte del convivio, dello stare a tavola, del godere il pasto in armonia e rilassatezza. Detto questo, considerare il cibo elemento necessario e fondamentale per la salute dell’umanità non basta. Esso concorre alla gratificazione nel momento del pasto come attesa di un sacro rituale, che si esprime nei modi più svariati, seguendo i modelli delle varie culture. Il cibo diviene così comunicazione, al pari di ogni linguaggio verbale, esso è depositario delle tradizioni e dell’identità dei popoli, costituisce uno strumento privilegiato identitario che, appagando la fame, suggella spesso solide alleanze. La bella e accogliente tavola è quindi un luogo prezioso. Il mondo contemporaneo, però, ha visto cambiare molti stili di vita in rapporto al cibo e a come consumarlo, sul come e cosa mangiare. Viene spontaneo osservare che le generazioni attuali molto spesso non mangiano, si nutrono semplicemente di un insieme di numerose elaborazioni spesso chimico-industriali, dai sapori goduriosi, ricchi di grassi, presentati e consumati un po’ dappertutto nello stesso modo. Cibo standardizzato, stili di vita standardizzati che fanno perdere ogni contatto con la dimensione del cucinare inteso come creazione di piatti e di pietanze partendo dai più semplici ingredienti di base. Se è vero che noi siamo ciò che mangiamo, la scelta del cibo è molto importante. Quindi, cibo buono, sano, coltivato e soprattutto cucinato? Sì, non ci sono dubbi. Quest’orientamento gastronomico ha favorito la considerazione e il riconoscimento della biodiversità, ossia la giusta percezione della ricchezza della vita sulla terra di milioni di piante e di animali che favoriscono la vitalità di un ambiente, tanto maggiore quanto più questo ambiente è diversificato e strutturato. La considerazione recente verso l’agrobiodiversità o diversità coltivata, apre a una discussione sull’uso di tecniche e tecnologie dell’agricoltura industriale dedite al grande mercato globale che non considera, però, storie culinarie d’appartenenza territoriale a cui sono legati valori e specificità. Quindi, il come mangiare e il cosa mangiare, ovvero l’atto del mangiare e l’oggetto di tale atto , si possono oggi riassumere nel binomio : slow-food, che si traduce, appunto nel come mangiare (slow) e cosa mangiare (food). L’associazione Slow-food nasce nella città di Bra, in provincia di Cuneo, grazie al nobile progetto dell’enogastronomo Carlo Petrini per la salvaguardia della biodiversità, nel diritto dei popoli alla sovranità alimentare e combatte l’omologazione dei sapori. Semplicemente un richiamo raffinato alla genuinità del cibo, un non lasciare che vadano perduti memoria e arti culinarie di tempi in cui tradizioni, cibo locale e arti conviviali hanno rappresentato valori essenziali dell’individuo e della collettività. Lo Slow-food rappresenta, senza dubbio, un’impostazione culturale attuale, che si contrappone in parallelo al modello commercial-produttivista “Fast-food”, privilegiando il recupero del tema del cibo come valore culturale e sociale, proponendo la ricerca di spazi dove il cibo assume un significato sacro. L’Italia gode di una particolare biodiversità territoriale che si esprime in prodotti culinari locali tipici, rinomati, dal pane ai primi piatti e alle pietanze, patrimonio culturale ormai conosciuto in tutto il mondo. Forse meno nobile, di stampo più commerciale ma egualmente interessante, è il progetto di Oscar Farinetti, inventore di “Eataly”: diciannove presidi nel mondo di prodotti d.o.c. italiani, nove in Italia, nove a Tokio e uno a New York. Il fine di Farinetti è quello di divulgare , grazie a questi grandi centri commerciali, prodotti esclusivamente italiani, genuini e di ottima qualità. Presso ogni centro “Eataly” si comprano prodotti, si mangia e si possono seguire anche corsi di cucina.

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