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Siamo davvero capaci di cambiare?

Gennaio 30
08:01 2012

È stato appena varato il pacchetto di liberalizzazioni dal governo Monti, definito dal Capo dello Stato corposo ed incisivo sulla crescita, che già si stanno profilando le vecchie usanze dei politici italiani: fare emendamenti nell’iter parlamentare per correggere o tagliare tutto quanto noccia ai loro presunti elettori. A nulla vale tenere conto delle invocazioni di urgenza che non più tardi di poche settimane fa lanciava lo stesso Capo dello Stato

e che troneggiavano sulle prime pagine dei giornali non solo italiani; urgenza che non si è affatto attenuata, anzi dovrebbe costituire l’elemento di maggiore attenzione della classe politica. Ma qui si evidenzia una pecca fondamentale del nostro Parlamento, cioè la esasperante lentezza con cui vengono affrontate le problematiche del Paese, se vengono affrontate! Il dubbio sorge sulla volontà di lavorare degli onorevoli, dubbio avallato dagli argomenti che li riguardano: pettegolezzi e litigi personali,banalità sulle loro vite private, partecipazione a lobby di ogni genere, incluse quelle illegali, alimentando la diffusissima convinzione della inutilità di avere quell’esorbitante numero di soggetti che costituiscono la base del peso dei costi della politica.

La faccia tosta dei rappresentanti dei partiti si evidenzia nel commento al pacchetto di liberalizzazioni: da una parte si dice che bisogna allargarlo per interessare anche le grandi categorie, dall’altra si auspica un non meglio specificato «maggiore coraggio». Ma da parte loro cosa è stato proposto se non una vergognosa pantomima di critiche reciproche e di veti incrociati? Viene facile il confronto con quelli che (a volte giustamente) critichiamo, in particolare i tedeschi. La loro attuale maggioranza è composta da due partiti antitetici ideologicamente, ma uniti dalla volontà di governare al meglio possibile e le scelte interne lo dimostrano, mentre non sono così compatti nei confronti di quell’Europa nella quale sembrano non credere molto. Ma soprattutto hanno dimostrato scelte a due velocità: rapide e molto concrete quelle interne, lente se non addirittura ostacolanti quelle internazionali. I loro problemi non sono molto diversi dai nostri, considerando che le criticità di ogni singola nazione emergono prima o poi in modo analogo: le differenze si evidenziano nei modi e soprattutto nei tempi in cui vengono affrontate. Un esempio su tutti è costituito dal tema previdenziale e dell’età pensionistica: è noto a tutti che l’aspettativa di vita futura aumenta per ogni popolo in modo uguale o quantomeno molto simile, ma mentre già da qualche anno i tedeschi hanno portato immediatamente a 67 anni l’età per l’uscita dal lavoro, uguale per uomini e donne. Da noi ancora non si è giunti ad una soluzione sollecita, mantenendo ancora differenze fra maschi e femmine a favore di quest’ultime nonostante la loro aspettativa di vita sia di circa sei anni più lunga. E secondo una inveterata usanza italiana non sembriamo preoccuparci delle conseguenze finanziarie di tali mancate scelte, dell’enorme peso economico che grava sul bilancio pubblico, tanto paga lo Stato! Ma lo Stato non siamo tutti noi? Ci sentiamo però offesi ed indignati se qualcuno ci mette di fronte a questa realtà, soprattutto se poi ci viene richiesto di cominciare a ripagare l’ingente debito che abbiamo accumulato nel corso di mezzo secolo di mala politica, e ci riteniamo in diritto di protestare in tutti i modi, compresi quelli violenti, sotto lo slogan «paghi di più chi ha di più e chi non ha mai pagato».

È certamente vero che la ricchezza dovrebbe essere maggiormente tassata e che l’evasione fiscale dovrebbe essere perseguita ferocemente, ma se fino ad oggi abbiamo alimentato il ‘furbismo all’italiana’, permettendo l’esportazione di capitali e l’impunità fiscale, perché ci lamentiamo quando siamo chiamati a risponderne? Spero non sia vero quello che è stato affermato nel passato: «non è vero che gli italiani non si possano governare, è inutile farlo!» Spero non sia vero perché continuando così ci stiamo mettendo nelle mani di chi, dotato di capitali esteri, compri le nostre industrie, le sfrutti e porti legalmente nella sua patria di origine gli utili generati, contribuendo così ad affossarci di più e renderci più poveri. Ma cerchiamo di essere meno pessimisti (anche se siamo convinti non si tratti di pessimismo ma di realismo). Speriamo nella capacità di reazione del popolo italiano che possa utilizzare le armi a sua disposizione per modificare lo statu quo, a partire da un sistema elettorale che, cancellati i soli noti, ci doti di quegli ancora ignoti, volenterosi personaggi che antepongano al bene comune ogni altro interesse, che lavorino alacremente per migliorare questa Italia ed ancor più questi italiani. Non ci vorrebbe molto; un esempio lo abbiamo oggi con il ‘governo dei professori’ che, lontani dalla politica ‘urlata’ e pettegola, la stanno interpretando nella sua accezione più valida ed etimologica: quella delle scelte tecniche. Con un difetto: sono italiani con abitudini di vecchio stampo, un po’ inficiati dalla teoria e senza la pellaccia pratica dei grezzi politici (da una parte per fortuna, anche se un pizzico non guasterebbe!), quindi non totalmente adatti a scelte vigorose. Ma non dobbiamo – e, in questo momento, non possiamo – pretendere troppo. Dovremmo avere la capacità di cambiare, dotandoci di quattro testi unici: civile, penale, amministrativo e fiscale, di una nuova legge elettorale che contempli un numero decisamente inferiore di parlamentari (gente nuova e giovane), ma ancor di più la volontà di cambiare il nostro atteggiamento mentale nei confronti della nostra appartenenza: uno spirito autenticamente nazionale a difesa degli interessi di tutti. Saremo davvero capaci di questo?

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