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(Sguardi) “Se solo fossi un orso” nuove generazioni fra le contraddizioni della moderna Ulan Bator

(Sguardi) “Se solo fossi un orso” nuove generazioni fra le contraddizioni della moderna Ulan Bator
Settembre 26
11:27 2024

Lo sguardo dolente di Ulzii quando è solo (l’espressivo Üürcajh Batcoož) , la voglia di divertirsi, pura gioia adolescenziale, nonostante tutto, i suoi lunghi occhi mongoli fanno già il film. Ma poi ci sono gli adorabili e solidali fratello e sorella Tungaa ed Ėrkhemee e la capacità del ragazzo di astrarsi, almeno nel sonno/nel sogno dagli obiettivi da raggiungere, come una laurea in fisica, materia nella quale è considerato un mezzo genio: allora, fra un frusciare di canne della tundra si rivede nel costume tradizionale foderato di pelliccia con comode calzature, principe d’un paesaggio lunare e del silenzio, e allo spettatore più smagato ed esperto torna in mente una scena clou di Dersu Uzala (1975), diretto dal grande Akira Kurosawa, quando il piccolo grande vecchio saggio con l’arrivo della tempesta mette insieme con pochi sterpi una capanna per ripararsi…

Il film Se solo fossi un orso (2023) della trentenne regista Pürėvdaš Zolžargal, è perfetto fin dall’inizio, con il racconto ritmato della famigliola che vive nella grande yurta portata fino ai sobborghi di Ulan Bator  dal padre, probabilmente ucciso dalla fatica e dallo spaesamento indotto dai luoghi anonimi creati dalla città; e dalla mamma, fuggita di nuovo in campagna col figlio più piccolo per non morire di fame in cinque, lasciando l’adolescente Ulzii alle prese con le necessità quotidiane (cibo e carbone per la stufa, in pieno inverno è freddissimo) e il moltiplicarsi degli impegni scolastici in vista dei concorsi che potranno portarlo ad una borsa di studio che migliorerebbe la vita sua e dei familiari permettendogli di avere un futuro.

La regista, così lo spettatore, sono completamente vicini alle necessità quotidiane dei tre ragazzi e alla voglia di crescere del protagonista, ma non sfugge neppure la parte oscura dell’ascesa del sistema capitalistico mondiale che mostra i suoi  nefasti effetti sulla città, avvolta in una nuvola di grigio smog tutto il giorno anche quando non nevica; e sugli abitanti una volta padroni selvatici della Mongolia arcaica, pastori di ovini e bovini, indotti a lasciare gli insediamenti di yurte per inurbarsi: come l’anziana coppia di allevatori che darà una mano ai ragazzi nei momenti bui e la stessa mamma che cerca di lenire solitudine e sentimento d’inadeguatezza con l’alcool. La perdita culturale della gestione del territorio, tagliano alberi come non ci fosse domani ma per scaldarsi; le chiacchiere per confezionare il ‘mostro’ utili ad alzare muri gli uni contro gli altri….Ma dalla madre riparte di nuovo la riflessione, mostrandola mentre canta la sua disperazione anche una volta tornata in campagna perché non ha accanto a sé tutta la famiglia, e quindi è già una donna sdoppiata; e dal ragazzo, che nessuno spettatore potrà accusare di volere un mondo indesiderabile ormai per molti (non solo dai radical chic), quello dove si fa carriera, si lasciano le radici contadine alle spalle ed anche il titolo del film che prende spunto da un’affermazione del fratello più piccolo di Ulzii: «Se solo fossi un orso in inverno potrei andare in letargo e non ammalarmi mai», verrebbe sconfessato dal cambiamento climatico in atto che non lascia in pace nemmeno i plantigradi. Ulzii, è chiaro, ha tutto il diritto di voler diventare qualcos’altro da ciò che è, di non patire la fame, di vivere la propria giovinezza, perfino di diventare colto e ricco poiché poi potrà giudicare ogni cosa dalla nuova posizione ottenuta e scegliere di tornare, forse, al sogno di una yurta nel nulla, o di tornarci qualche volta, in un paese dove ancora, di notte, si ammira una coltre di milioni di stelle e sembra si possa toccare con un dito una via lattea dalle mille sfumature pastello… (Serena Grizi)

 

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