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Sebastiano Saia: stop alle violazioni dei suoi diritti in carcere e ai domiciliari

Maggio 25
13:15 2010

Il Gruppo EveryOne sollecita un intervento internazionale per fermare i trattamenti inumani e degradanti sui detenuti in Italia.

Chiesta inoltre un’inchiesta parlamentare sul caso Saia e sulle condizioni inumane dei detenuti nelle carceri italiane, nonché l’adesione delle associazioni Antigone, Detenuto Ignoto e Nessuno Tocchi Caino, da anni impegnate in battaglie civili per i diritti dei detenuti. Sollecitato il Commissario per i Diritti Umani al Consiglio d’Europa affinché siano perfezionati nell’Unione europea organismi e leggi a tutela delle vittime di abuso giudiziario e poliziesco

Roma, 25 maggio 2010. Una sequela di violazioni dei diritti fondamentali della persona, contrarie alla Costituzione italiana, alla Carta dei diritti fondamentali nell’Unione europea, alle risoluzioni e direttive Ue e a tutti gli accordi internazionali – sottoscritti anche dall’Italia – che tutelano i Diritti Umani fondamentali: è questa la motivazione che ha portato il Gruppo EveryOne a chiedere alle autorità politiche e giudiziarie italiane di prodigarsi affinché vengano interrotti con urgenza i trattamenti inumani e degradanti cui è sottoposto Sebastiano Saia, siciliano di 62 anni, e di Beata Molnarova, slovacca, sua compagna, entrambi accusati di reati di natura fiscale e finanziaria e recentemente condannati dal Tribunale di primo grado di Milano.

Tutto ebbe inizio nel 2009, quando la Guardia di Finanza, il 27 maggio, su ordine della Procura della Repubblica di Milano, li prelevava separatamente dalla loro abitazione di Aviano (Pordenone) per condurli alla casa circondariale di San Vittore.

Quando la pattuglia mandata a prelevare Beata Molnarova si accorse del bambino di un anno che la donna aveva con sé (figlio suo e del compagno Sebastiano), la sua ordinanza di custodia cautelare fu mutata in arresti domiciliari, e venne disposto il suo trasferimento a Volvera (Torino), luogo della residenza anagrafica, abitazione completamente sprovvista di mobili e assolutamente inadeguata a ospitare una mamma con il suo bambino. Mentre Sebastiano raggiungeva San Vittore e veniva rinchiuso in una cella di 4 metri per 2 con altri 5 detenuti, tutti fumatori mentre lui non lo è, Beata veniva trasferita in auto a Volvera, con una scorta di dieci pannolini per il bambino e tre bottiglie di latte, che usava durante il viaggio. Dopo oltre 500 chilometri, trascorsi in auto con il bambino in braccio, veniva costretta a dormire per terra alle 4 del mattino, senza un materasso né una coperta, con il figlioletto in fasce tra le sue braccia.

Disperata per non poter scaldare al piccolo nemmeno un pentolino di latte, visto che ogni autorizzazione a uscire le era stata negata, Beata veniva soccorsa da alcuni vicini, che avevano udito il suo pianto e quello del bambino: qualcuno procurava un materasso, qualcun altro del latte e del cibo, altri ancora dei pannolini. Nessuna assistenza sociale veniva predisposta oltre al serrato controllo delle Forze dell’Ordine. Intanto a Sebastiano in carcere venivano negati i più elementari permessi: da quello di telefonare alla compagna alla richiesta di vedere un medico, dall’essere trasferito in una struttura meno affollata e in condizioni igienico-sanitarie migliori alla domanda di incontrare l’ispettore sanitario e la direttrice del carcere.

Un mese dopo, il 24 giugno 2009, l’arresto di Sebastiano Saia veniva convalidato. I domiciliari venivano inoltre convalidati per Beata Molnarova, sempre più in difficoltà vista la casa completamente vuota e l’impossibilità di badare al figlio in quelle condizioni. Il 14 luglio 2009 Saia assiste a un pestaggio, che riferisce con le seguenti parole: “Un detenuto asiatico fu picchiato dagli agenti, tramortito e trascinato per i piedi dall’inizio del quinto raggio fino all’infermeria; circa 250 metri di corridoi, sempre strisciando con la schiena per terra. Il giorno seguente feci domanda di vedere la direttrice del carcere e l’Ufficio di Comando, ma nessuno di questi due appuntamenti mi fu mai fissato”. Saia presenta dunque dal carcere un esposto alla Procura della Repubblica di Milano, che viene però archiviato poche settimane dopo, senza alcun provvedimento o indagine nei confronti degli agenti. Il 25 luglio Beata Molnarova è libera e le vengono finalmente revocati gli arresti domiciliari.

Da questo momento in poi, Sebastiano inizia ad avere seri problemi di salute: prima una colica renale, poi fortissimi dolori allo stomaco, per cui chiede ufficialmente il permesso di poter effettuare un’approfondita visita chirurgica. L’istanza viene rigettata; il 14 settembre, dopo svariati mesi in cui i dolori non si placano, inoltra una nuova domanda di visita. Il giorno seguente, mentre Sebastiano sta raccogliendo firme per una petizione lanciata da Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, per portare l’Italia davanti alla Corte europea dei Diritti Umani, viene minacciato – secondo quanto afferma – dall’Ispettore di guardia: “Smettila o non uscirai mai più di prigione”.

A ottobre, al malessere fisico comincia ad aggiungersi quello psicologico: Sebastiano è depresso e demotivato e inizia a pensare al suicidio; chiede di poter avere un colloquio con uno psicologo o psicoterapeuta, ma quando scopre che il colloquio si sarebbe svolto presso la guardia di turno in infermeria, vi rinuncia. Il 28 novembre 2009, dopo sei mesi di detenzione, la sua richiesta di arresti domiciliari viene respinta, nonostante il parere favorevole del PM, con la menzione di “gravi indizi di colpevolezza” operata dal collegio giudicante.

Sebastano riferisce inoltre che il 20 gennaio, mentre svolgeva una mansione di spesino in carcere per cui veniva retribuito con la somma di 260 euro al mese – lavorava 10 ore la giorno, compresi i festivi – subiva un’aggressione da parte di un detenuto venticinquenne: la diagnosi era: tumefazione all’occhio, due denti sbrecciati, l’impossibilità a masticare e un trauma cranico. L’addetto all’infermeria di turno riportava nel referto che Saia ha sbattuto la testa contro una porta e solo dopo le proteste di Sebastiano la motivazione veniva mutata in aggressione. Il giorno dopo, Sebastiano veniva licenziato dal lavoro.

Il 23 marzo 2010, dopo dieci mesi di carcere, vengono disposti gli arresti domiciliari per Saia – con l’espresso obbligo di frequentare e parlare solo con i conviventi -, che raggiunge così la compagna nella casa di Volvera. Tuttavia, anche ai domiciliari proseguono trattamenti poco attenti alla sua salute già minata e gli vengono ancora negati permessi; oltre al fatto che non gli viene fornita, nonostante ripetute richieste ufficiali, copia della sua cartella clinica, a Sebastiano vengono negate dal Giudice le visite del suo medico di famiglia e la possibilità di effettuare degli esami di controllo. Anche la Guardia Medica, chiamata alle 20 del 25 marzo per dolori attribuibili a un’ernia ombelicale, viene bloccata dai Carabinieri, che si recano quattro ore dopo, verso la mezzanotte, a casa di Saia e gli chiedono che cosa avesse, senza portare con sé un medico.

Il giorno seguente, Sebastiamo chiama il 118 a causa di insopportabili dolori allo stomaco, accentuatisi dalla notte precedente; viene condotto al Pronto Soccorso, dove viene sottoposto a esami e gli viene diagnosticata un’ernia con apertura ombelicale di diversi centimetri. Dimesso in attesa dell’esito degli esami, viene ricontattato il 30 marzo scorso dall’ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano (Torino), che ne richiede il ricovero per operarlo. Segue sua istanza al Giudice per poter essere ricoverato e operato; in giornata il permesso viene concesso, con espresso divieto che l’eventuale intervento di rimozione dell’ernia si svolga nella data del 20 aprile, già fissata per la prosecuzione del dibattimento. Il 2 aprile Sebastiano viene operato di un’ulcera ombelicale di 16 cm per 8 e un altra duodenale di 6 cm, e viene dimesso due giorni dopo.

Sebastiano comincia però ad accusare anche dolori ai reni, e richiede al giudice una visita urologica, nonché la possibilità di appuntamento dentistico dovuto alle difficoltà di masticazione conseguenti l’aggressione subita. Richiede inoltre di poter frequentare la chiesa cattolica di Volvera, adiacente alla sua abitazione. Tutti questi permessi, pur riguardando seri problemi di salute ed equilibrio personale, non sono concessi. In data 17 maggio gli viene autorizzata esclusivamente la visita domiciliare da parte di un neuropsichiatra, previa comunicazione ai Carabinieri.

Il Gruppo EveryOne ha appreso con sconcerto i particolari riguardanti i trattamenti subiti da Sebastiano Saia, dalla sua compagna e dal loro bambino di un anno, che purtroppo non rappresentano un unicum, ma toccano, in misura più o meno grave, migliaia di detenuti – o persone sottoposte a limitazioni della libertà individuale – nel nostro Paese, come se la pena loro spettante non dovesse essere costituita dalle sole restrizioni previste dalla legge, ma da una condizione di privazione, umiliazione e sofferenza per il giudicato e tutta la sua famiglia.

Questo modello di applicazione della legge, che si vede in tanti film di tema carcerario, da “Le ali della libertà” a “Fuga da Alcatraz”, da “The rock” a “Sorvegliato speciale”, e che ha colpito ripetutamente Sebastiano e i suoi cari non è costituzionale perché la pena comminata da un tribunale non comporta lo spalancarsi di un girone infernale per il detenuto – un luogo di dolore in cui i diritti vengono annichiliti, la salute e la vita divengono fattori di infimo pregio – ma semplicemente l’applicazione delle misure comminate, che non devono ledere la dignità, l’integrità, la salute, il senso di sicurezza e gli affetti della persona punita.

I trattamenti cui è stato sottoposto il signor Saia e a cui sono sottoposti quotidianamente migliaia di esseri umani colpiti da una giustizia vendicativa, si configurano secondo le Carte dei Diritti Umani come palesi violazioni di diritti fondamentali e inviolabili della persona, tra i quali il diritto alla salute e all’assistenza. Basti pensare che in questo fosco e orrido scenario, dall’inizio del 2010 ben 26 persone si sono suicidate nelle carceri italiane, ormai sovraffollate; sono invece 100 i casi di suicidio da 18 mesi a oggi. Gran parte delle persone decedute si sentiva perseguitata dall’autorità giudiziaria e vittima di abusi senza alcuna possibilità di denunciarli e ottenere una condizione di detenzione umana e dignitosa.

Il Gruppo EveryOne, in base alle riferite numerose violazioni dei Diritti Umani subite
da Sebastiano Saia, dalla sua compagna Beata e dal loro bambino in fasce, chiede che le autorità mettano in atto urgentemente misure atte a ripristinare una condizione di vita dignitosa per il nucleo familiare vessato e che possa ritornare nella sua casa di Aviano; inoltre, chiede sostegno ai deputati e senatori Radicali, nonché a tutte le forze politiche democratiche, affinché sia avviata un’inchiesta parlamentare sia riguardo al caso Saia, sia riguardo alle condizioni di vita degli esseri umani sottoposti, nel nostro Paese, a misure restrittive della libertà individuale e a quelle dei loro cari.

Contemporaneamente, la vicenda di Sebastiano, Beata e del loro piccolo vengono portate a conoscenza del Commissario per Diritti Umani, del Comitato dei Ministri e dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, affinché vengano creati finalmente nell’Unione organismi internazionali efficaci a tutela dei diritti delle vittime di abuso giudiziario o poliziesco e leggi europee che definiscano la necessità di rispettare la salute, l’integrità, la sensibilità, gli affetti e la dignità delle persone soggette, dopo procedimento penale, a restrizioni della libertà.

Infine gli attivisti di EveryOne hanno inviato un report sul caso anche all’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, signora Navi Pillay, e chiesto l’adesione alla campagna sul caso Saia delle associazioni Antigone, Detenuto Ignoto e Nessuno Tocchi Caino, da anni impegnate in battaglie civili per i diritti dei detenuti.

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