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Scienza, fantascienza e paranormale

Dicembre 04
22:55 2012

La storia insegna che la scienza, in qualunque stato del suo sviluppo, non esaurisce il complesso spettro di manifestazioni della realtà, sia essa quella materiale (fisica) o immateriale (spirito). Una considerazione trionfalistica della scienza porta spesso, specialmente chi ad essa è estraneo, a bollare drasticamente come inconciliabili con essa tutti quegli aspetti della realtà che “ancora” non possono essere spiegati scientificamente e a negarne, per tale ragione, l’esistenza. Una riflessione più ponderata ci convincerebbe, invece, che l’inconciliabilità riguarda più propriamente il rapporto fra metodo scientifico e metodo non scientifico e non il rapporto fra scienza e fatti non scientifici, che come tali non possono essere dichiarati né coerenti né incoerenti con i fenomeni scientifici, in quanto al di fuori del contesto scientifico.

Insomma, non sono i fatti “non ancora” scientificamente provabili che devono essere rigettati in se stessi da parte della scienza, ma le interpretazioni non scientifiche di quei fatti gabellate per scientifiche, che fanno si che essi non possano far parte della scienza attuale, il che è ben diverso dal negarne l’esistenza. Affermare, infatti, che esiste soltanto tutto ciò che oggi è scienza equivarrebbe a dichiarare che null’altro è all’infuori della scienza e che null’altro è scientificamente conoscibile: l’arte, la letteratura, i sentimenti, invece, esistono pur non essendo “fatti scientifici” e la scienza stessa progredisce proprio inglobando fatti prima non spiegabili scientificamente. Dice il sommo Poeta: «Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinita via (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, III, 34-35)». L’opera di Dio è infinita e la ragione dell’uomo non può conoscerla completamente: la scienza non ha mai fine, per l’uomo. I fatti “oggi non scientifici” non fanno parte della scienza attuale, ma non per questo è da escludere a priori che possano farne parte in futuro. Ciò è già accaduto ripetutamente nella storia della scienza. Basti ricordare tutte le geniali intuizioni di Leonardo da Vinci che lo portarono a disegnare macchine allora impensabili e oggi, invece, “tutte” reali. Leonardo era un visionario? Per i suoi contemporanei forse sì, perché ciò che concepiva con la sua mente era in gran parte inspiegabile con le conoscenze scientifiche del tempo, erano idee che non potevano trovar cittadinanza nella scienza del suo tempo. E se le sue stupefacenti anticipazioni di tante realizzazioni della moderna tecnologia meccanica (la gru, la bicicletta, il carroarmato, le mitragliatrici, l’elicottero, il paracadute, il sottomarino, ecc.) erano assolutamente fuori del suo tempo, risulta ancora più incomprensibile, per noi, una sua frase che allude inequivocabilmente ai moderni mezzi di locomozione e alle attuali telecomunicazioni: «Andranno li omini e non si moveranno, parleranno con chi non si trova, sentiranno chi non parla» (Codice Atlantico, 1483-1518). Vengono i brividi a leggere queste parole: Leonardo immaginava già gli uomini del futuro che avrebbero potuto parlare con altri uomini al telefono o via radio, insomma tramite le onde elettromagnetiche, di cui Leonardo non poteva nemmeno avere la più vaga idea! Nessuna conoscenza scientifica del tempo poteva suggerire a Leonardo una simile profezia.
In definitiva la scienza si limita a spiegare i meccanismi dei fenomeni del mondo fisico e della mente umana, alla luce di principi di cui “ammette” la verità in quanto non contraddetti da dati sperimentali contrari. Ma quali che siano questi principi, la scienza non può darne una spiegazione (in quanto principi) e quando riesce a darla è soltanto perché essi stessi sono stati declassati dal loro ruolo di principi in quanto riconosciuti conseguenze di altri nuovi principi con un dominio più vasto e che pertanto li sostituiscono. Ciò è accaduto ripetutamente nella scienza: il principio di Archimede che non è più un principio ma una legge derivabile dal principio di Pascal che a sua volta…oppure il principio di relatività classica che non è più tale in quanto derivabile dal principio di inerzia, ecc. È questo il cammino della scienza: trovare “spiegazioni” sempre più generali, ovvero che possano render ragione di molteplicità sempre più vaste di fatti singoli, con la suprema ambizione di arrivare a un unico principio da cui poter derivare la spiegazione di qualunque fatto singolo, giungendo così a costruire quella teoria unitaria cui aspirava Einstein e che è tutt’oggi il traguardo ambito di tutti i fisici. Ma anche se si arrivasse a stabilire questo unico principio, rimarrebbe senza risposta la domanda: perché questo principio e non un altro? In altri termini, la scienza non può conoscere le ragioni ultime delle cose. Insomma i “fatti”, di qualunque natura essi siano, sono e rimangono sempre i dati del nostro vivere, mentre le loro cause sono congetture al pari di credere che essi stessi debbano avere una causa: «Non sono più i fatti che hanno bisogno di una causa per prodursi: è il nostro pensiero che trova comodo d’immaginare dei rapporti di causalità per spiegarli, coordinarli, e renderne possibile la previsione», diceva Bruno de Finetti poco meno che ventiquattrenne nel suo famoso Probabilismo, saggio critico sulla teoria delle probabilità e sul valore della scienza, pubblicato nel 1930 dal filosofo Aliotta nella rivista Logos. Le cause dei fatti sono congetture più o meno affidabili, e per noi comode, del nostro pensiero: la loro associazione ai fatti è scienza ma non i fatti stessi.

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1. Bruno de Finetti – Probabilismo, saggio critico sulla teoria delle probabilità e sul valore della scienza , Libreria Editrice Francesco Perrella S.A. 1930, p. 2. Cfr. anche Bruno de Finetti, L’invenzione della verità, Milano, Raffaello Cortina, 2006, pp. 74-79.____

 

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