Schiavi o padroni? La questione dell’arbitrio
Nell’ossatura dell’Occidente, il carattere dominante dell’autonomia riferibile alle scelte individuali compare quale precipua espressione della singolarità. Alle nostre latitudini culturali, la certezza della padronanza aziona un singolare meccanismo che non smette di confortare chiunque confidi nelle sue personalissime intenzioni. Quanto spazio rimanga per indagare l’unicità delle azioni individuali si può immaginare proprio esaminando le occasioni riservate alla scelta o alla considerazione delle alternative possibili. Non si può certo sminuire l’aspetto calcolatore, così diffuso e felice conquista di un positivismo endemico e parametro dell’autoconservazione, come si riconosce che nessuno procede contro i propri interessi, assecondando i dispiaceri. Tutto ciò non sembra limitare il disinteresse manifestato verso un argomento tanto impervio, già proposto dagli antichi come spiazzante quesito sul libero arbitrio. Detto altrimenti, nel compiere un’azione qualsiasi, possiamo ritenerci totalmente responsabili? La risposta a questa domanda, tutt’altro che ovvia, impone una serie di considerazioni preliminari che ora possiamo, soltanto brevemente, tentare di riassumere.
All’uomo dell’età ellenistica si presentava un interrogativo di difficile soluzione, specialmente quando offerto senza le precedenze spettanti alla logica. Gli antichi stoici ritenevano sensato supporre una concatenazione di tutti gli eventi secondo il meccanismo di causa-effetto, soluzione che difficilmente avrebbe concesso una personale capacità deliberativa nella determinazione degli eventi. Esprimendo la dipendenza di tale concatenazione dalla volontà divina (spesso identificata con pneuma, pronoia, ecc.) riuscivano agevolmente a rendere ambivalenti il Fato – destino per cui tutto si compie – con la necessità sovrana. Nell’universo degli stoici non c’è spazio per l’individualismo, tutto ricade entro una decisione di portata superiore che consente al saggio di preservare l’integrità della sua condizione, pronto a ricorrere al suicidio pur di sfuggire al destino avverso. Audace la posizione di Crisippo di Soli che, stando alla testimonianza di Cicerone[1], tentò di rilanciare la capacità decisionale attribuendo alle azioni possibili una serie di cause proximae o adiuvantes: l’argomentazione di Crisippo, pur condotta con un certo rigore, rimane emblematica per riformulare il problema, sostenendo un’angolazione che non mantiene completamente intatta la posizione degli stoici più antichi.
Resta indubbio che, per uno stoico, non tutto “ciò che accade per destino risulta necessario”[2]: l’argomentazione riportata da Alessandro d’Afrodisia[3] riprende, all’origine, l’antica controversia sui futuri contingenti[4], che vedeva aristotelici e stoici infaticabili avversari. Articolata su un piano logico-metafisico, la verità della proposizione ‘domani ci sarà una battaglia navale’ risulta incerta per un aristotelico (almeno fin quando il fatto non può dirsi compiuto) ma vera per uno stoico perché stabilita dal destino, anche se non necessaria. L’indipendenza della formulazione logica dalla successiva realizzazione supporta le conclusioni stoiche anche sul piano di una sostanziale omogeneità tra i tempi passato, presente e futuro. Predicare (sul piano logico) qualcosa del futuro secondo valore di verità non significa accertarne la realizzazione (sul piano ontologico). Incongruenza che un aristotelico non concepisce, tanto per una differente rappresentazione della causa, quanto per una caratterizzazione dell’azione secondo finalità. Alessandro rimprovera a costoro di non distinguere correttamente “ciò che avviene per destino” e “ciò che è necessario”, termini, a suo dire, legati da sinonimia.
Da quanto riportato, pur con una penalizzante modalità riassuntiva, sembra evidente come l’intervento divino promosso secondo un prospettiva interamente stoica favorisca un livellamento del problema. Agli autori cristiani sarà affidata la gravosa conciliazione di libero arbitrio e prescienza divina.
Rivendicare la centralità di una riflessione ‘fuori tempo’, inadatta a esibire i nostri intimi rapporti con cose e persone, risulta spesso l’unico antidoto contro l’irrilevanza che la modernità attribuisce al superamento delle contingenze. Di ben altra portata, rispetto alle riassuntive articolazioni qui ricordate, il problema derivante dall’arbitrio reca ancora una testimonianza di come il passato possa offrire solidi appoggi per l’edificazione di un presente ripetutamente in debito.
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[1]Cicerone, De fato 39-43.
[2]Cfr. Stoici Antichi. Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano, 2002, pp. 841-42.
[3]Alessandro d’Afrodisia, De fato, a cura di C. Natali, Rusconi, Milano, 1996.
[4]L’argomentazione aristotelica sui futuri contingenti si trova nel De intepretatione, 9.
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