Sanremo: la cultura italiana nel cuore delle canzoni
Una delle prime dichiarazioni di Roberto Vecchioni, dopo la vittoria al 61° Festival di Sanremo, ha riguardato la strada che la musica italiana dovrebbe seguire: quella che coniuga la musica d’autore con la grande tradizione popolare. Non a caso, quest’anno, più che mai, il palco dell’Ariston s’è vestito di storia e di canzoni, commemorando i 150 anni dell’Unità d’Italia e consegnando la conduzione della manifestazione a un presentatore come Gianni Morandi che, si sa, nei libri di storia della canzone del Bel Paese c’è entrato da decenni. “Dio, patria e famiglia”, costituiscono da 61 anni la triade contenutistica che meglio rappresenta le canzoni del festival. Ma, nelle idee di Vecchioni, la canzone d’autore italiana percorrerebbe la strada giusta se fosse in grado di recuperare la sua fisionomia tradizionale e profonda: quella che, lontana dalle retoriche autocelebrative e retrograde, da sempre, è capace di raccontare il presente, di parlare alla coscienza e di rappresentare la nostra identità, affinché esse si tramutino in memoria e nel senso del nostro vivere quotidiano. Come un moderno cantastorie, un poeta, un uomo di cultura legato al suo Paese, il cantautore milanese, nella sua canzone Chiamami ancora amore, si fa interprete del nostro tempo, parlando d’immigrazione, dei giovani studenti in piazza, del senso della solidarietà e della cultura che si stanno smarrendo. Il brano, lo dice il titolo stesso, è soprattutto una canzone d’amore, perciò mostra anche una coerenza tematica che eleva il Festival della città dei fiori al di sopra della sua immagine stereotipata di vecchio baraccone che ha poco da raccontare, di ottimo espediente per sfogare la voglia di pettegolezzo all’italiana. Eppure, di cose da raccontare, quest’anno, a Sanremo, ce ne sono state davvero tante. Arte, politica, valori e ideali, con Benigni o il duo di comici co-presentatori, non hanno fatto da contorno, magari riempiendo l’intervallo tra le canzoni, ma hanno costituito il cuore e il senso di tutta la manifestazione. Per non farsi sopraffare dal ridicolo e dalla banalità – dall’indifferenza, come denunciava Gramsci, in un testo letto da Luca e Paolo -, per scrollarsi di dosso l’immagine, di noi italiani, scolpita dall’ignoranza e dalla smemoratezza, i contenuti del programma potrebbero essere letti come una metafora: non quella della cultura della resistenza – esaltata, tra l’altro, dal nostro inno nazionale e dalle canzoni storiche interpretate per l’occasione dagli artisti in gara – piuttosto, come la resistenza di una cultura che non vuole farsi schiacciare dalla povertà di un pensiero costretto ad articolarsi attraverso un’equidistanza artificiosa, timorosa e schiava di una strana e insensata versione della par condicio, come ha detto il comico Luca quasi al termine dell’ultima serata, esasperato da tutti i vincoli che il direttore di Rai Uno, Mauro Mazza, ha imposto alla loro satira. Ma tra canzoni stonate, forse un po’ banali, come spesso accade, la tenace convinzione di portare un fatto di cronaca nera sul palco del Festival, seguita da Albano (cantando dell’omicidio della 28enne nigeriana Doris Iuta, avvenuto nel 2008, a Livorno) o la voglia di ricalcare le orme della tradizione locale (Van des Fros), intimista (La Crus, Madonia-Battiato), melodica (Modà e Emma) o la memoria di un anniversario così importante (Tricarico, con la sua canzone dedicata al Tricolore), non sorprende il fatto che la tradizione, come l’eleganza e la compostezza, abbiano trionfato, soddisfacendo le aspettative di tutti. A risaltare più che mai, però, è l’esigenza che la cultura e il cuore dell’Italia non si perdano, e che un’arte come la canzone, ma non solo, continui ad esprimerli, a dispetto dei pregiudizi dominanti e dell’oblio.
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