Dal libro di Mirco Buffi – “Momenti Monticiani” edito dall’Associazione Culturale Photo Club Controluce
17 gennaio
Quando, oggi, si dice “feste popolari” siamo subito indotti a pensare a quelle manifestazioni organizzate a fini esclusivamente turistici, e mirate all’attrazione di folle sempre più numerose di visitatori, con lo scopo di ricavarne un beneficio (economico e di immagine) per la comunità promotrice. Troppo spesso ci dimentichiamo che esse traggono origine dalla “cultura dei popoli”. L’arte popolare trovava proprio in queste feste, nella loro preparazione e nella loro fruizione, la possibilità di esprimersi attraverso la musica, la poesia, la danza, la pittura, i costumi e la coreografia.
E l’occasione non era certamente stimolata da un puro interesse mercificatorio, ma dalla voglia di rievocare un evento storico, o un rito, una credenza religiosa, una superstizione, la celebrazione di un ciclo naturale della vita o delle stagioni, una manifestazione di solidarietà, ecc.. In sostanza, in queste occasioni venivano celebrati i valori che il popolo aveva individuato come elementi di positività. In tal modo tali valori venivano tramandati alle generazioni successive. Ciò significa che le feste popolari erano proposte non “per prendere”, ma “per dare”.
Anche la comunità di Monte Compatri ogni anno “snocciola” le sue brave feste. La più importante è sicuramente quella del Santo Patrono del paese, san Giuseppe, ma non meno sentita è la festa di sant’Antonio Abate. È di quest’ultima che cercherò di cogliere gli aspetti più significativi con una breve descrizione.
Il santo e il suo culto
Nell’agiografia antica la vita di Antonio ha segnato il punto di raccordo fra il martirio e il monachesimo, “sentieri” che hanno caratterizzato la vita materiale e spirituale del cristianesimo nei primi quattro secoli della sua storia. Il martire segue l’esempio della passione di Cristo. Nello stesso modo in cui Cristo trionfò nei confronti della morte e del diavolo, il martire combatte e vince la stessa battaglia. Ebbene, nel monachesimo il martirio non viene espresso ed esaurito con un unico gesto di offerta a Cristo della propria vita, ma si ripete quotidianamente. Antonio in particolare condusse la sua lotta, per tutta la vita, contro il diavolo. Infatti questa espressione del male lo tenterà in tutti i modi, anche con la violenza corporale, ma ne uscirà sempre sconfitta: “Il diavolo invidioso, che suole odiare il bene, non sopportò di vedere in un giovane questa maniera di vivere, e osò operare anche contro di lui come gli era consueto” (Atanasio).
La strada dell’ascetismo e dell’anacoretismo venne così fortemente segnata da Antonio, padre del monachesimo, e si estenderà, oltre l’Egitto, a tutto l’Oriente e poi all’Occidente, fino all’Irlanda.
Il Medio Evo tutto si è nutrito di questa figura, di questo “gigante” che stava lì a dimostrare quanto potesse essere grande l’amore dell’uomo per Cristo. Anche l’arte si è nutrita di Antonio. Pittori famosi ne hanno dipinto il dramma dei lunghi anni nei quali fu sottoposto alla violenza delle “tentazioni del demonio” sempre raffigurato in sembianze animalesche, tra le quali il porco con maggiore frequenza e sempre in primo piano. Ed è proprio dalla errata interpretazione che il popolo ha dato di tale iconografia che, probabilmente, deriva la credenza diffusa di Antonio “protettore degli animali”. Artisti come Grunewald, Bruegel, Gaddi, Teniers e Bosch hanno dipinto Antonio sempre con un aspetto senile: una lunga barba bianca, un saio, un bastone da eremita (a forma di Tau), la campanella e il porco, la fiaccola (o il fuoco).
Il culto del Santo a Monte Compatri
Certamente, tutte le più importanti manifestazioni del popolo nella vita rurale sono pervase da una “religiosità piena”, rivolta ad ottenere la protezione divina per i rischi, i pericoli e la precarietà di una vita dura da essere vissuta.
Anche Monte Compatri, vista la vocazione agricolo-pastorale della popolazione, avrà espresso, nel corso dei secoli, la sua devozione ad Antonio. Anche a Monte Compatri ci saranno state persone che traevano da un animale la principale fonte di sostentamento, basti pensare ai numerosi “carretti a vino” che fino a pochi decenni fa servirono per il trasporto del prezioso nettare a Roma. Tali persone avranno certamente immaginato con terrore una possibile malattia dell’animale o, peggio ancora, la sua morte. E cosa fare, in tali circostanze? Come evitare questa possibile e terribile disgrazia? Vista la povertà e l’ignoranza, non restava altro che rivolgersi al Santo il quale avrebbe potuto offrirgli “protezione” in cambio di “devozione”!
Notizie certe e documentate sul culto del Santo non ce ne sono, almeno fino alla fondazione del “Circolo di sant’Antonio” avvenuta nel 1893, per merito di Enrico Carli e Giovanni Felici. Gli anziani del paese ricordano che la festa era molto attesa. I preparativi iniziavano molto tempo prima (addirittura prima di Natale). I promotori della festa erano ogni anno diversi. Il meccanismo era semplice. Con una specie di passaggio del testimone, alla fine della festa corrente venivano nominati un nuovo “presidente” ed un nuovo “festarolo” ed a loro venivano affidati, rispettivamente, la “bandiera del circolo” ed il “quadro del Santo”, i “simboli” della manifestazione. A loro spettava il compito di raccogliere i fondi necessari alla festa attraverso le donazioni volontarie dei paesani e di organizzare e predisporre il carro allegorico che avrebbe partecipato alla processione.
Nelle più recenti edizioni, i festeggiamenti iniziano la sera del 17 gennaio alle ore 17, momento in cui i soci vanno a prendere la bandiera del circolo ed il quadro del Santo nelle case del presidente e del festarolo in carica, e tutti insieme, con la banda del paese in testa, accompagnano questi simboli fino alla chiesa di S. Maria dell’Assunta in cielo dove, nel terzo altare a destra, si trova la cappella di S. Antonio. Sopra l’altare viene conservato un dipinto ad olio con i santi Rocco, Antonio Abate e Sebastiano: in alto, un cherubino sorregge due serti di rose ed una palma, il tutto nello sfondo di un paesaggio fantastico. La tela, che sino al 1930 si trovava nel primo altare a destra, è, secondo l’Artioli, un’opera di Carlo Possenti (1826-1882), pittore di Monteporzio formatosi nell’ambito dell’Accademia di S. Luca. Il tono accademico e classicheggiante della tela, che ispira a modelli cinquecenteschi ferraresi, confermano questa ipotesi. Non è da escludere che la tela possa essere un rifacimento di un’opera originale del cinquecento.
Da questo altare viene poi celebrata una messa in memoria dei soci defunti del circolo. Alla fine della funzione i soci organizzano un “falò”. Come ricordato da alcuni paesani, vista la decentrazione territoriale del comune, nel passato il falò era acceso nella piazza davanti alla chiesa della frazione di Laghetto, ed in questa occasione la gente si riuniva attorno al “fuoco comune” e si scaldava mangiando pane e salsiccia e bevendo vino. Da alcuni anni, però, il falò è stato riportato nelle piazze del centro storico del paese.
La domenica immediatamente successiva al 17 gennaio si “fa la festa”. Viene annunciata alle otto in punto di mattina con “le bombe”, tre forti esplosioni dal punto abitato più alto, nel piazzale davanti al santuario di San Silvestro. Alle ore 10 c’è la messa solenne nella cappella del Santo. Dopo la messa si riprendono i simboli (la bandiera ed il quadro) e “con la musica si scende in piazza”, tutti in processione, fra due ali di folla festante, fino ad un piazzale dove sono in attesa i carri allegorici che partecipano alla gara. Una giuria esprimerà poi il giudizio sul migliore carro che verrà premiato. Ma non solo i carri attendono di accodarsi alla processione, ci sono anche i paesani che hanno portato i loro animali; ed allora si mettono in movimento cavalli e cavalieri, asini, buoi, cani, uccelli portati nelle loro gabbiette ed, a volte, anche animali di qualche circo di passaggio nella zona, ippopotami, dromedari, elefanti, tigri e leoni (anche loro nelle apposite gabbie), e così via…
La lunga processione riguadagna così la “piazza dell’Angelo” dove il prete è pronto per benedire tutti gli animali.
All’inizio del secolo la benedizione veniva data dal prete subito fuori il portone del Duomo. Gli animali, insieme all’unico carro allestito dal circolo (non c’era la gara dei carri allegorici), dopo aver sfilato nelle vie del paese, giungevano alla vicina piazza Manfredo Fanti, gioiello di “Ghetto” (il quartiere arroccato intorno al Duomo). I cavalli, i muli e gli asini erano tutti freschi di “brusca e striglia” e avevano gli zoccoli lucidi di grasso, spalmato fino a pochi minuti prima della benedizione; portavano attorno al collo un fiocco rosso ed erano “vestiti” con i migliori accessori conservati tutto l’anno appesi alle pareti delle stalle. Gli animali dovevano essere belli! Quasi per poter dire al Santo: “Guarda che bell’animale che possiedo! Fa che possa essere altrettanto bello anche il prossimo anno!”.
Arduino, vecchio monticiano amato e stimato da tutti, ricorda che “i cavalieri portavano appoggiati sulle selle lunghissimi ceri accesi (forse torce)” quasi un simbolo allegorico per ricordare le virtù guaritorie di Antonio.
Alle ore 13 tutti a pranzo, i cittadini nelle proprie case, mentre i soci del circolo si riuniscono in uno dei tanti locali del paese per celebrare il “pranzo sociale”, ricco di piatti e vini locali. Nel pomeriggio, la manifestazione ha a volte assunto un aspetto non propriamente legato alle tradizioni. Balletti coreografici o sfilate in costume con sbandieratori o cori folcloristici sono serviti talvolta per l’intrattenimento della gente, per mantenere viva l’attenzione fino al momento in cui, sempre con la banda in testa, si portano “i simboli” alle case del nuovo presidente e del nuovo festarolo nominati per organizzare la festa l’anno successivo. Ed ancora rinfreschi con “sbicchierate, ciambelle e panini” da loro offerti.
Ed alla fine della festa, attesi da tutti, ecco i “fuochi artificiali”: belli, rumorosi, vivi e ricchi di colori, hanno sempre la capacità di risvegliare l’eterno fanciullo che rimane dentro ognuno di noi.