“Rom: figli di un Dio minore”
L’Associazione Culturale Graffiti, Scuola Permanente di Fotografia presieduta da Gianni Pinnizzotto fotoreporter e giornalista, già Direttore artistico della Scuola e dell’Agenzia Graffiti Press, ha ospitato dal 14 aprile al 3 giugno, la mostra “Rom: figli di un Dio minore”.
L’opera fotografica, coadiuvata in alcuni casi con l’U.N.I.R.S.I. (Unione Nazionale e Internazionale Rom e Sinti in Italia), è il risultato della collaborazione di artisti di talento che dietro il loro clic fotografico, hanno documentato le inquietudini delle loro creazioni, che hanno preso forma, in una potente e significativa forza drammatica; nomi come Susanna Almonti, Fabio Ancora, Marco Baroncini, Paola Casali, Andrea Catapano, Laura Montanari, Gianni Pinnizzotto, Luca Sinerchia, Sabrina Zimmiti, Simona Zimmiti e Samantha Zucchi, che per cinque anni hanno lavorato nei campi rom della Capitale: al Casilino 700, Via Candoni e Vicolo Savini, raccogliendo il materiale fotografico in un volume da cui la mostra trae il titolo, riconosciuto nel 2006 con il premio speciale della giuria, come miglior libro al Festival Internazionale Orvieto Fotografia, pubblicato in collaborazione con la Provincia di Roma e Amnesty International.
Immagini in bianco e nero, raccontano la vita dei rom nei campi nomadi, mostrando piccoli gesti di normalità nell’anormalità di una vita da emarginati, le storie delle famiglie, degli anziani, testimonianze preziose illustrate nella loro straordinaria intimità, dagli interni di “case” fatiscenti, al gioco dei bambini che corrono scalzi per le stradine di fango e specchi di acqua, in cui si riflette la loro crudele precarietà, sullo sfondo di roulottes sgangherate ed uno spaventoso sovraffollamento ed allarmante degrado.
Il popolo rom è una popolazione indoeuropea che parla una lingua di ceppo indiano, concentrato soprattutto nell’Europa dell’Est, in Spagna e in Sud America (specie in Brasile e in Argentina).
Nella loro lingua rom (o rrom, plurale roma o rroma) significa semplicemente “persona”, “essere umano”. I rom sono spesso chiamati impropriamente zingari, zigani o gitani, tutti termini che fanno riferimento ad una presunta ed erronea origine egiziana; i primi, giunti in Italia nel 1400, sono diventati cittadini italiani da molte generazioni. L’altra grossa ondata migratoria di rom invece c’è stata successivamente negli anni ’90 dalla Ex Jugoslavia, dove vivevano stanziali da quattro secoli, la loro fuga fu resa necessaria, perché vittime della pulizia etnica voluta da Milosevic.
I rom sono la più vasta minoranza d’Italia, le ultime migrazioni arrivano dalla Romania, paese a più alta densità di popolazione rom, ed essendo da pochi mesi cittadini comunitari, possono stare in Italia senza permesso di soggiorno ed oltrepassare le frontiere senza troppi problemi. Purtroppo nonostante tutto, sono soggetti a continue discriminazioni e pregiudizi, solo perché non riuscendo ad integrarsi sono costretti a rubare per mancanza di alternative e per questo accostati al simbolo del degrado ed alla criminalità cittadina. Uno studio condotto dall’Unicef sulla condizione dei bambini rom in sette paesi dell’Europa Sud Orientale, denuncia che centinaia di migliaia di rom che vivono isolati in ghetti e campi fatiscenti, hanno scarso accesso ai generi alimentari, all’acqua potabile ed a condizioni igienico sanitarie minimamente accettabili.
La mostra punta l’obiettivo su chi non ha voce, sullo sguardo degli adulti e dei bambini catturato nella sua spontaneità, fatto di profondi occhi scuri, in cui a gridare è un dolore silenzioso, muto, che anima queste “città” fantasma, ai margini di quel tutto possibile, ma irraggiungibile a chi nulla possiede se non la povertà, dove la vita scorre senza poterla afferrare.
“Rom: figli di un Dio minore” ci parla di quelle vite sospese, così vicine eppure così lontane, in un foto-reportage che evidenzia le contraddizioni del nostro tempo, fatto di consumismo estremo, smascherato nella crudeltà delle differenze di ceto e di casta, spunto di riflessione essenziale sui rapporti fra arte, individuo e società. Gli artisti hanno presentato i loro ritratti di denuncia, giocando su quella frazione di secondo che normalmente si utilizza nello scatto, e con l’eterno istante che crea quella condizione indispensabile a rendere visibile l’identità della foto, del volto, inteso come “specchio dell’anima”, essenza della bellezza, che possa raccontare in eterno e svelare ciò che è celato, nascosto. Un’istallazione toccante, un viaggio educativo emozionante, le immagini inducono lo spettatore a fermarsi, a soffermarsi, a riflettere, partecipando con empatico trasporto nel soggetto e nella sua solitudine, tentando di capire le sue paure e le sue gioie, il suo mondo e chi alberga in lui.
Obiettivo della mostra è quello di comunicare e far conoscere i volti di coloro che soffrono nell’indifferenza generale, di promuovere una nuova sensibilità sui temi di una solidarietà che si basi sulla conoscenza e la comprensione di culture diverse, in un itinerario che si snoda attraverso lingue, costumi, comportamenti, credenze ed umanità multiformi, quasi a divenire una sorta di piccolo atlante antropologico, in cui la diversità non deve essere considerata una minaccia, ma un motivo di integrazione e confronto cui attingere per accrescere la nostra cultura, una sorgente vitale di scoperta che avvicini tutti.
L’obiettivo di chi ha scrutato a fondo le problematiche legate a questi popoli, documenta la ricchezza degli scatti realizzati, eppure nonostante il problema dell’integrazione sia visibile ancor prima all’occhio umano, si continua a parlare di sgomberi, e di “patto della legalità”, spingendo i rom fuori dal raccordo anulare, con il risultato che l’integrazione sociale di questi popoli e l’alfabetizzazione dei bambini che frequentavano le scuole è divenuto un mero ricordo.
Il nostro, continua ad essere il Paese delle contraddizioni, dove non esiste il raccordo fra comunità ed istituzioni, dove è assente la progettazione di interventi a favore della scolarizzazione, dove non è possibile promuovere le differenze culturali intese come fonte di ricchezza. Questa è l’Italia, un Paese dove a dilagare è l’ignoranza, dove le differenze fra occidentali e flussi migratori tipici della nostra era creano paura e disagio in chi vede nel “diverso” un pericolo, generando discriminazione e antisemitismo.
Ryszard Kapuscinski, giornalista e scrittore polacco scomparso pochi mesi fa, nel suo saggio intitolato “L’altro”, riflette ed induce a riflettere, sul tema della diversità e dell’uguaglianza, parlando della sua vita professionale, dei suoi viaggi in Asia, Africa e America latina, delle popolazioni incontrate, dei loro problemi, tratteggiando un ritratto dell’altro, del suo simile, ponendosi degli interrogativi: «Qual è la loro visione del mondo? In che modo vedono gli altri? In che modo, ad esempio, vedono me? Perché se è vero che per me loro sono gli altri, è altrettanto vero che per loro l’altro sono io».
Forse, se invece di patto si parlasse di educazione alla legalità, ci sarebbe la disponibilità a creare le condizioni dell’accoglienza, della solidarietà e la piena accettazione ad integrarsi con persone portatrici di culture e tradizioni diverse dalle nostre, con parità di accesso per tutti alle risorse, affinché questi popoli possano riappropriarsi di quei diritti fondamentali e della propria dignità di esseri umani, in un mondo dove lo sguardo non ha cittadinanza, e la libertà dell’individuo diviene evento collettivo.
Info: www.graffitiscuola.it – Graffiti Scuola Permanente di Fotografia – Via Latina, 511/515 – Roma Tel. 06.45439313 – Fax 06.78147348
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