Rocca Priora: Di scena il dialetto romanesco con Maurizio Marcelli e Luciano Gentiletti
Un bel pomeriggio all’insegna del dialetto, quello svoltosi a Rocca Priora, presso il Polo Culturale Monsignor Giacci il 22 novembre: inserita nel programma della Stagione Culturale 2024, l’iniziativa “Incontro con il dialetto romanesco: A nò come se scrive?“ ha visto protagonisti Maurizio Marcelli, fondatore e presidente dell’Accademia romanesca e Luciano Gentiletti, poeta dialettale tra i più premiati d’Italia, accolti in biblioteca dal Sindaco Claudio Fatelli e dall’Assessore alla Cultura Federica Lavalle.
Cultore della storia di Roma, studioso e amante del vernacolo, suo il Piccolo Principe in romanesco, Maurizio Marcelli accenna ai poeti e ai personaggi della tradizione dialettale di Roma, di coloro che nel tempo hanno veicolato quella che è la lingua romanesca dal latino, senza infarciture fiorentine.
Parte da La Cronica, redatta in un arcaico romanesco dall’Anonimo romano, identificato in Bartolomeo di Iacovo da Valmontone: tra i capitoli, alcuni purtroppo perduti, la vita di Cola di Rienzo, famoso tribuno di Roma nella prima metà del 1300: vi si notano influenze latine, ma anche similitudini con dialetti meridionali. Si tratta della prima testimonianza scritta del dialetto romanesco, ch’è come tutti i dialetti, soprattutto oralità e risente, nel tempo, di evoluzioni e cambiamenti, dovuti anche alla storia.[1]
A partire dal Quattrocento, l’alternarsi di pontefici spagnoli e fiorentini (Borgia e Medici) fece sì che il romanesco subisse infarciture spagnoleggianti e influenze toscane, variabili che arrivavano al popolino, grazie alla presenza in città di notabili al seguito del Papa di turno.
Scritto da Giuseppe Berneri nel ‘600, il poema giocoso Meo Patacca ha come protagonista un soldato spaccone pronto a spararle grosse e a battersi. Patacca deriva dal soldo ch’era la sua paga. Fa i suoi discorsi a Campo Vaccino in un romanesco d’epoca, raddoppiando le consonanti iniziali. Generoso, devolverà il denaro che i nobili romani avevano anticipato per un’impresa mercenaria a Vienna contro i Turchi, in festeggiamenti popolari – i Trionfi – nella città.[2]
Con il Belli nella prima metà dell’Ottocento poco muta il romanesco: nelle sue trasposizioni scritte risalta quella C strascicata ( deaffricazione, secondo il moderno alfabeto fonetico ) che il poeta trascrive con sc. Un notabile, uomo colto che scrive nel dialetto popolare, lasciando un quadro straordinario del pensiero, degli usi e costumi di una Roma papalina non ancora mutata con gli avvenimenti storici successivi.
E ancora Cesare Pascarella con La scoperta dell’America, Gigi Zanazzo poeta, antropologo e studioso delle tradizioni popolari, Trilussa: poesia ad altissimo livello quella del Salustri, la cui famiglia era originaria di Albano Laziale. Un dialetto italianizzato, il suo, anche per l’opera pubblicata da Mondadori che richiedeva fosse comprensibile a tutti. Un gentiluomo della Belle Époque, arguto e sensibile, elegante e raffinato nella sua poesia che porta anche a un’evoluzione metrica, tralasciando il sonetto; sue le favole nelle quali fa parlare gli animali e sottilmente trasmette sottintese, scomode verità, invise in periodo di dittatura. S’accenna a Pasolini che ama il dialetto considerandolo natura intima e profonda di un popolo, strumento di appartenenza a una comunità.
L’interessante carrellata storica di Marcelli che cita ancora Mario Dell’Arco, Giorgio Roberti è alternata dai sonetti pluripremiati di Luciano Gentiletti: inducono a profonde riflessioni, rievocano situazioni, commoventi riferimenti al tempo agli affetti, alla vita che passa, forse troppo in fretta: con i suoi versi, recitati con pacata gentilezza d’animo, Luciano trasmette pillole di sussurrata saggezza e moderazione
Vola il tempo anche quando Maurizio Marcelli descrive brevemente il suo libro “A nò, come se scrive?” edito Accademia Romanesca, giunto alla III ristampa. Un insegnamento attraverso vignette e fumetti nei quali egli stesso è protagonista con la sua nipotina, affettuosamente chiamata Luciè: spiega e illustra il nonno, parlando in vernacolo romanesco che la piccola Lucia incamera, apprende e gradualmente mette in pratica. Le simpatiche illustrazioni di Clotilde Matera – evocata con affettuoso rimpianto per la sua prematura scomparsa, nella dedica iniziale del libro – accompagnano nella città eterna i due protagonisti e la passeggiata offre spunti di riflessione sul dialetto, sulla storia, sulle bellezza della nostra Roma.
Una grammatica romanesca di Claudio Porena con un glossario etimologico svelano regole e curiosità che i lettori gusteranno, approfondendo il dialetto di Roma, anche attraverso i sonetti che l’autore ha voluto inserire tra le pagine dell’opera, unendo utile e dilettevole ( o dialettevole che dir si voglia) nella conoscenza dell’argomento, reso vivace durante l’inconto anche in diretta “novello maestro Manzi”, coinvolgendo i presenti e tra questi la spiritosa e disponibile Federica Lavalle e utilizzando lavagna e pennarello.
Evolve nel tempo la lingua italiana e, come i dialetti, rischia di scomparire fagocitata da anglicismi e neologismi che lasciano il tempo che trovano: è bene che entrambi vengano studiati, approfonditi e ben conosciuti anche attraverso l’uso diretto: i nonni dei piccoli borghi ormai insegnano i dialetti agli angioletti… facciamo in modo che le nuove generazioni non perdano questa preziosa realtà linguistica, lessicale, semantica e grammaticale: attiviamoci in modo che possa conservarsi anche attraverso giochi e progettazioni da proporre nelle scuole. Tradizione, dialetto, storia, usi e costumi fanno parte della nostra genetica: rispettiamoli, conosciamoli e conserviamoli.
[1] https://www.accademiaromanesca.it/node/9357
[2] https://romeguides.it/2021/05/15/la-fama-di-meo-patacca/
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