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Robert Capa: uno sguardo dolce, leggermente sfocato

Robert Capa: uno sguardo dolce, leggermente sfocato
Febbraio 07
21:32 2014

capa soldato lipsiaA sessant’anni dalla sua morte, avvenuta in Indocina nel ’54, il ricordo del fotografo ungherese Robert Capa e delle sue immagini è ancora molto vivo nelle fantasticherie dei reporter di guerra, un ricordo che col tempo ha assunto i caratteri di un vero e proprio mito, della favola bella del giovane che, al riparo delle sue Leica, si getta nelle battaglie più violente uscendone indenne. Molto ha giocato nella costruzione di questo mito il fatto che egli sia morto relativamente giovane, a differenza di altri suoi colleghi vissuti fin quasi la soglia dei cent’anni, ma anche per la sua vita avventurosa o percepita tale da chi lo aveva conosciuto da vicino.

Affascinati quindi da questo imprevisto mix di vitalità e scaltrezza, di ardimento e da un notevole fascino personale, chiunque abbia esercitato la sua stessa professione è indotto a rivaleggiare con lui, non rendendosi conto pienamente di dare la caccia a un fantasma quantomeno ingombrante, e con un atteggiamento simile a quello di un bambino che si trovi davanti a una vetrina di giocattoli. Non rendendosi pienamente conto che quelle immagini, e quella vita, non potranno essere mai più eguagliate né superate nella loro semplicità formale e nel loro intrinseco valore politico e sociale, che attiene all’epoca, alla situazione storica e in definitiva alla personalità di Capa. Una delle sue fotografie più famose, quella del soldato repubblicano che cade all’indietro, colpito a morte durante una battaglia della guerra civile spagnola, è la guerra civile spagnola. Perché gli stracci che il soldato indossa al momento di morire, sono gli stessi dignitosi stracci dei militanti delle Brigate Internazionali che partono per il fronte di Saragozza, del Rio Segre, di coloro che vanno alla difesa di Madrid, non le livide uniformi di tragiche marionette degli aviatori nazisti della Legione Condor, non le uniformi lucide e decorate dei generali felloni di Francisco Franco. Con le immagini della guerra di Spagna, quindi, Capa ha già scelto da che parte stare, cinque anni dopo esser fuggito dall’Ungheria antisemita del dittatore-reggente Horthy e dalle formazioni paramilitari delle ‘Croci frecciate’. E’ un’ Europa in mano ai fascismi quella degli anni ’30, e la Francia cerca di contrastarne l’avanzata con l’esperienza del Fronte Popolare. E Robert Capa è lì, a documentare con entusiasmo le allegre e rumorose manifestazioni popolari a sostegno del governo di Leòn Blum, ma anche, con simbolica preveggenza, le lugubri parate dei veterani della Prima Guerra Mondiale per le strade di Parigi o al cimitero di Verdun, che nel fascismo vedono la sola via d’uscita per ristabilire l’ordine e l’onore perduto nella crisi economica. Le immagini di Capa sono immediate, e non a torto viene considerato l’inventore del fotogiornalismo moderno, ma che non ha nulla a che vedere con certo fotogiornalismo d’assalto degli anni a venire. Ad una prima occhiata le sue foto, quelle del ’36 in Spagna o quelle della Seconda Guerra Mondiale potrebbero sembrare, a chi le avvicina per la prima volta, quasi pacate, con uno strano senso di tran quillità, come a dire, con una punta di indolenza, ‘io sono qui, ma fate finta che non ci sia’. Ma poi c’è una accelerazione, che porta all’immagine finale, che racchiude tutto e rappresenta ‘la Storia’, che fa sì che quella immagine diventi un sigillo, che oltre quel limite non si possa dire e fare più niente. Ed è il caso di un’altra terribile fotografia, scattata a Lipsia, nei giorni della caduta del Terzo Reich. La sequenza fotografica che si può vedere nei provini a contatto, mostra il posizionamento di una mitragliatrice su un balcone di un condominio borghese, da parte di due giovani soldati della terza armata americana. Capa mostra l’armeggiare dei due intorno all’arma, da vicino, alla loro altezza. La sicurezza e la calma con la quale i due soldati operano sembra la stessa di un caldaista che venga a riparare il boiler sul nostro terrazzo. Niente fa presagire quello che avverrà qualche secondo dopo. Un cecchino tedesco, dal finestrino di un tram fermo sulla strada, centra in piena fronte uno dei due soldati, che scivola a terra senza un grido, come scriverà Capa stesso. E’ tutta la scena che impietrisce chi la osserva. Ed è una ben magra consolazione vedere nelle successive fotografie del provino, i commilitoni del giovane soldato americano far scendere dal tram il tedesco, prenderlo a calci nel sedere, e portarlo via. Quella foto, per Capa, chiude un ciclo, quello delle guerre del fascismo, aperto con il miliziano morente di Cerro Muriano. “Riuscì a fotografare la guerra non riprendendola direttamente” scrisse John Steinbeck, in un articolo in memoria dell’amico scomparso. E in effetti sembra così. Le sue immagini lievemente sfocate sono evocative in molti casi e, come le tessere di un enorme puzzle, vanno al loro posto e completano il quadro: i soldati repubblicani a riposo, le assemblee delle Brigate Internazionali, la partenza per il fronte, i combattimenti, il miliziano colpito. Lo sbarco alleato in Sicilia, il soldato americano e il contadino, i ragazzini di Materdei uccisi dai tedeschi, il 6 giugno ’44 in Normandia, infine Lipsia e la sua Germania anno zero. Le fotografie di Capa, dicevamo, sono evocative, suggeriscono più che mostrare, e soprattutto non indulgono nell’ostentazione continuata del sangue e dei cadaveri, come invece avviene nelle guerre di oggi. Egli sembra privilegiare quello che la guerra comporta, gli stati d’animo, gli slanci, le paure, la generosità, la vigliaccheria o il coraggio, quel che tutte le guerre hanno stravolto e continuano a stravolgere nella piccola quotidianità dell’essere umano. I pochissimi morti, forse non più di una decina, nei quali ci si imbatte tra le migliaia di immagini che lui ha prodotto, sembrano in verità dormire, come se il sonno li avesse colti all’improvviso, ormai distanti dal fragore dei cannoni, dalle disavventure della vita. E’ per questo che ci avviciniamo alle sue foto non con il terrore negli occhi, ma desiderosi di capire, di comprendere. L’ultima immagine di Robert Capa è una epifania: è stata scattata nel Delta del Fiume Rosso, in Indocina, durante le fasi finali della guerra contro i francesi. Si vede un bambino vietnamita ucciso presumibilmente qualche attimo prima da un gruppo di soldati che lo sta oltrepassando. E un soldato con gli occhiali da sole che sembra guardare verso il fotografo. Pochi istanti più tardi Capa viene ucciso da una mina, come narra la versione ufficiale. Quello che molti fotoreporter di oggi non hanno compreso o fanno finta di non comprendere, nei loro solipsistici viaggi dentro il cuore di tenebra di guerre lontane e apparentemente incomprensibili ai più, è che Capa nei suoi tableaux vivants mette in scena la vita, non il suo contrario, su di un palcoscenico che corre verso la libertà, attraversando una infinita serie di ‘guerre di liberazione’, suo malgrado. E per fare tutto ciò o si possiede una naturale fiducia nel prossimo e nelle possibilità di un reale cambiamento, o si rischia di finire come il famoso, folle Mister Kurtz.

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